Non c’è quasi dibattito, sceneggiato televisivo o notizia a effetto nei quali l’infanzia non abbia una posizione centrale. Non si parla realmente dei bambini, nemmeno li si ascolta, ci mancherebbe! Eppure sono sulla scena. Vengono adoperati per ottenere quel di più di commozione, per guadagnare quel di più di coinvolgimento emotivo e, non ultimo, legittimare la violenza.
Sosteniamo l’Ucraina per proteggere i suoi bambini; ci viene detto giorno per giorno quanti ne vengono feriti o uccisi. Se ci spostiamo su un piano narrativo, nelle fiction Rai i protagonisti commettono efferatezze pur di proteggere i loro figli e così si assicurano il sostegno degli spettatori. Nell’esagerazione qualcosa di buono ci sarebbe se a questo corrispondesse una reale attenzione per l’infanzia. Invece…
Il 7 luglio scorso l’Istat, presentando il suo rapporto annuale, ci ha detto come stanno le cose in Italia. Del cosiddetto inverno demografico si parla diffusamente: siamo una popolazione composta sempre più di anziani. Se per mantenere pressoché inalterato il numero di abitanti dovrebbero nascere mediamente 2,1 figli per ogni donna in età fertile (metà del mondo, quella maschile, collabora ma non al parto, si capisce perciò che di figli ce ne vogliano almeno due), la media italiana è di 1,24, mai così bassa. Chi desidera un bambino aspetta di raggiungere una certa stabilità su casa e lavoro, dunque l’età dei genitori al primo figlio si fa più matura.
Intanto, quasi la metà dei giovani tra 18 e 34 anni (47,4%) si trova in condizioni di deprivazione in almeno un campo tra: istruzione e lavoro; partecipazione sociale e politica e fiducia nelle istituzioni; salute fisica e mentale, stili di vita; benessere soggettivo; soddisfazione per il territorio in cui vive e accesso ai servizi. Per giunta 1 su 6 è plurideprivato, cioè in difficoltà su almeno due di questi fattori. Peggio di tutto se la cavano i giovani di 25-34 anni.
Parlare di tutto questo per ritornare all’infanzia ha un chiaro significato. “L’investimento nei primi anni di vita”, scrive Istat, “è riconosciuto come il più efficace nel ridurre i divari ereditati dal contesto socio-economico di origine”.
Si potrebbe dire: i bambini sono pochi, abbiamo l’agio per qualificare i servizi che li riguardano. Invece stiamo facendo il contrario e i risultati si vedono. Quasi un terzo degli adulti a rischio di povertà proviene da famiglie che, quando quegli adulti erano ragazzi di 14 anni, versavano in una cattiva condizione finanziaria. Come dire che la povertà si eredita. In Europa solo Bulgaria e Romania se la cavano peggio di noi, che oltretutto siamo in declino ogni anno di più.
“Le diseguaglianze strutturali continuano a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle opportunità che definiscono il destino sociale delle persone”, si legge nel report. Non è una questione privata e neppure transitoria, in Italia 1,4 milioni di minori crescono in contesti di povertà assoluta e l’OCSE documenta che, già a 5 anni, provenire da contesti familiari con uno status socio-economico più basso fa la differenza in termini di opportunità e capacità di apprendimento.
Ci vorrebbe una Repubblica capace di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, come recita al secondo comma l’art. 3 della nostra Costituzione. Invece, meno del 30% dei bambini in età 0-2 frequenta una struttura educativa. Del resto in Italia i posti nido sono 28 ogni 100 bambini (l’obiettivo europeo è il 30%) e sul territorio il divario è forte, nel centro nord ci siamo o quasi, al sud o nelle isole i posti al nido sono 16 ogni 100 bambini. Le differenze non attengono soltanto agli investimenti, anche alla cultura e alla possibilità, specialmente per le donne, di lavorare fuori casa. Con il PNRR si apre la possibilità di mettere a punto un piano per colmare i vuoti, ma i Comuni non lo stanno facendo.
I bambini diventano ragazzi e la cura verso di loro non migliora. La percentuale di spesa per l’istruzione sul Pil italiano è decisamente inferiore a quanto si osserva in altri paesi europei ed è in diminuzione negli ultimi vent’anni, mentre ad esempio in Spagna e Germania si assiste a un incremento. Da noi, poi, oltre il 60% degli edifici statali non è a norma con i requisiti di sicurezza e, ancora una volta, al nord la situazione è meno allarmante rispetto al centro-sud, dove le scuole sono anche meno raggiungibili e peggio attrezzate (mense, palestre, laboratori…).
Un rimedio potrebbe venire dal welfare. Le prestazioni sociali in Italia ricoprono una fetta significativa (33,2 per cento del Pil), ma per famiglie e minori è destinato solo l’1,2% del Pil (la media europea è 2,5%), ovvero il 3,8% della spesa sociale. Inoltre, l’aiuto alle famiglie è per l’83% in denaro (assegni familiari), l’investimento per l’offerta di servizi è del tutto residuale.
“Pagare per la pace e non per la guerra”, si scandiva una volta. Certo non è fuori luogo affermare che, se davvero si hanno a cuore le nuove generazioni, occorre investire per loro e su di loro. Né è retorico ricordarci che le risorse assorbite dalle spese militari darebbero frutti migliori se fossero impiegate per il benessere di ciascuno di noi e della collettività, secondo un disegno di pace.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta