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La relazione d’aiuto: la riattivazione del legame di attaccamento
Premessa indispensabile e fondamentale per la relazione d’aiuto è l’autentico interesse per la persona, tenendo conto delle sue premesse esistenziali (le precoci esperienze, vissute nella relazione primaria) e dei suoi modi di relazionarsi.

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La relazione d’aiuto diventa tale quando l’operatore è in grado di costruire un percorso di cura con il paziente e con la sua famiglia, che contempli gli aspetti fisici del malessere insieme a quelli emozionali e interpersonali. Non esiste cura del corpo senza cura dell’anima.

Occorre ricercare le corrispondenze fra mondo biologico, mondo psichico ed organizzazione relazionale, per mettere in atto strategie terapeutiche coerenti con la complessità della malattia mentale.

Il vero potere curativo sta nel legame, nella relazione che si sviluppa tra i sistemi impegnati nel processo di cura e che richiama quello delle relazioni primarie ovvero “il legame d’attaccamento”.

Secondo J. Bowlby “Essere genitori non è un compito facile”. Il comportamento genitoriale sarebbe in qualche misura programmato geneticamente, per cui tenderebbe a delinearsi secondo certe modalità. Le peculiarità degli stili genitoriali sono d’altra parte notevolmente influenzati dall’esperienza con la propria famiglia d’origine e, quindi, dal modo in cui la madre o il padre sono stati trattati dai loro genitori e dalle specifiche interazioni con il neonato.

J. Bowlby, inoltre, ritiene preprogrammato anche il comportamento del bambino, nei confronti del genitore. “Il comportamento di attaccamento”, infatti, permetterebbe al bambino di mantenere una vicinanza con la figura di attaccamento, ovvero con quella persona che si ritiene capace di fornire cura e sostegno.

Bowlby opera una distinzione tra “attaccamento” e “comportamento di attaccamento”. L’attaccamento rappresenterebbe il legame tra il bambino e la sua figura di riferimento, legame che persiste nel ciclo di tutta la vita e che non è pertanto influenzato dalle situazioni contingenti. Il comportamento d’attaccamento è invece quell’insieme di schemi di comportamento messi in atto da una persona per ottenere la vicinanza di un’altra, ritenuta capace di sostegno e protezione in particolari circostanze. Il comportamento d’attaccamento, quindi, sarebbe regolato da un sistema di controllo interno al soggetto, analogo a quelli omeostatici regolanti altre funzioni fisiologiche. In particolari circostanze, quali l’essere spaventato, afflitto, stanco, lo schema comportamentale s’attiverebbe inducendo l’individuo a ricercare la prossimità della figura d’attaccamento e si disattiverebbe una volta ottenuta tale vicinanza.

L’organizzazione vera e propria del comportamento d’attaccamento avrebbe origine verso i nove mesi, quando cioè il bambino comincia a possedere quelle competenze cognitive che gli permettono di sviluppare un modello di interazione relativo alla sua figura d’attaccamento. Questo “modello operativo interno” includerebbe schemi relativi al proprio Sé, all’Altro e al Sé-con-l’Altro, e sarebbe fortemente determinato da come i genitori interagiscono con lui nel corso dello sviluppo. In altre parole, rappresenterebbe il “punto di vista”, la teoria che gli individui hanno su di sé e sulle relazioni affettive per loro rilevanti.

Le osservazioni e gli studi di M. Ainsworth hanno avvalorato le tesi di Bowlby. In particolare, è stato osservato il comportamento della madre e del bambino posti in una “situazione insolita” (strange situation).

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Attraverso l’osservazione, in particolare, dei momenti di separazione e riunificazione con la madre, è stato possibile stabilire tre stili principali di attaccamento:

  • Stile di attaccamento sicuro: il bambino si separa facilmente dalla madre per esplorare l’ambiente, ma vi ritorna prontamente per essere rassicurato quando è angosciato. In presenza della madre ha un comportamento amichevole con l’estraneo. Dopo la separazione, al rientro della madre, se il bambino è angosciato richiederà il contatto materno, che sarà efficace nel porre termine all’angoscia. Se non è angosciato richiederà comunque l’interazione con la madre.

  • Stile di attaccamento ansioso-ambivalente: il bambino ha difficoltà a separarsi dalla madre, effettua una scarsa esplorazione e diffida dell’estraneo. Al momento della riunificazione mostra comportamenti di ricerca del contatto con la madre che però non riesce a calmare la sua angoscia, e continua a piangere e ad agitarsi.

  • Stile di attaccamento ansioso-evitante: il bambino esplora facilmente, non ricerca l’interazione con la madre, sembra fidarsi dell’estraneo. Al momento della riunificazione mostra un atteggiamento di indifferenza e quasi mai ricerca la vicinanza della madre.

Inoltre, è stato delineato uno stile di attaccamento disorganizzato in cui il comportamento del bambino appare disorientato sia nei confronti dell’ambiente sia della madre: assume comportamenti bizzarri, stereotipie, di stupore.

A tali pattern di attaccamento sono state associate determinate caratteristiche del comportamento materno.

Le madri dei bambini “sicuri” sarebbero sensibili e responsive; capaci di dar cura e sostegno ai loro figli rispondendo in modo adeguato alle loro richieste senza, però, intruderli, ovvero dando loro spazio per esprimere le proprie emozioni e comportamenti senza precederli o ridefinirli. Fornirebbero la cosiddetta “base sicura” da cui il bambino può partire per esplorare il mondo, sicuro di potervi tornare ogni qualvolta ne sente il bisogno. Consentirebbero al bambino di pensare: “ciò che viene da me è meritevole di riconoscimento, io sono degno d’amore e gli altri sono degni di fiducia”.

Le madri dei bambini ansiosi-ambivalenti sarebbero madri imprevedibili e intrusive, ovvero non costanti nel fornire cure e sostegno e, talvolta, invadenti nel prevedere e ridefinire i bisogni del loro bambino. Il modello operativo interno risultante potrebbe essere così descritto: “io sono buono e mamma pure. Mamma è cattiva ed io non sono degno d’amore. Non sono sicuro che piacerò, dipenderà dai miei sforzi conquistare l’amore dell’altro. Bisogna manipolare l’altro per non essere manipolati”.

Le madri dei bambini evitanti sarebbero madri con comportamenti che svalutano l’attaccamento; dimostrerebbero un senso di peso nell’accudire il bambino inviando messaggi distanzianti al bambino stesso, il quale, per rispondere al proprio bisogno di attaccamento si terrà lontano da lei. Il modello operativo interno corrispondente sarebbe: “io sono di peso agli altri, li infastidisco, ci sono delle realtà in me che non meritano riconoscimento perché sono pesanti. Posso contare solo su me stesso, non ho bisogno di nessuno”.

Le madri dei bambini disorganizzati sarebbero madri con lutti non elaborati e traumi vissuti. Mentre si occupano del bambino, potrebbero avere delle irruzioni di pensiero doloroso e terrorizzante che, in qualche modo, modifica la loro mimica e il loro sentire. Il bambino, di conseguenza, riceverebbe un messaggio non pertinente, così elaborato: “tu hai più paura di me … io cerco aiuto da una persona che mi mette paura e della quale non posso fare a meno”. In tali casi è come se il bambino avesse più modelli operativi interni e li facesse funzionare in maniera disarticolata: “mamma mi spaventa perché è cattiva; forse sono io però che spavento gli altri, e se fosse che ci sia un pericolo invisibile: tutti e due ne siamo vittima. E poi succede che quando sto in braccio a mamma e sono tutto terrorizzato lei si commuove con due lacrime, poi sorride ed è gioiosa. Ma forse sono io il salvatore onnipotente degli adulti, portatore di sorriso e sollievo. E poi succede ancora che se mamma continua ad accudirmi io mi sollevo da quella paura. Forse è lei la salvatrice onnipotente”. Dunque ci sono rappresentazioni molteplici di sé e dell’altro, incoerenti, oscillanti tra più poli, l’uno rappresentato dal salvatore, l’altro dalla vittima e l’altro dal persecutore.

Naturalmente le categorie comportamentali così schematizzate non danno ragione delle molteplici sfumature con cui si viene ad instaurare la relazione primaria e i comportamenti conseguenti, ma si possono considerare come schemi d’azione in base ai quali il bambino osserverà il mondo circostante e filtrerà le successive esperienze. Nei primi anni di vita, i modelli operativi interni, saranno relativamente aperti al cambiamento in relazione al mutare della qualità degli scambi relazionali con le figure di accudimento. Poi, nel corso degli anni diventano sempre più stabili e più complessi fino a diventare caratteristiche della persona, più che proprietà della relazione.

Sono state riscontrate correlazioni tra i pattern comportamentali della prima infanzia e quelli in età prescolare. Correlazioni significative sono state anche riscontrate tra il modo in cui la madre descrive le proprie relazioni con la famiglia d’origine e lo stile d’attaccamento attuale con il proprio figlio. Infine anche nella scelta del partner e nei comportamenti di coppia risulta esserci continuità.

“Le esperienze che una persona ha, specialmente nell’infanzia, determinano in gran misura le sue aspettative di trovare o non trovare in seguito una sicura base personale, ed anche la misura in cui sarà capace di stabilire e mantenere, quando ve ne sia l’opportunità, un rapporto reciprocamente gratificante … la natura delle aspettative che una persona nutre e il suo livello di capacità hanno un ruolo rilevante nel determinare i tipi di persone a cui si accosterà, e come queste si comporteranno con lei … lo schema che si formerà per primo tenderà ad essere duraturo.” (J Bowlby)

La capacità di entrare in relazione rimanda ad un attaccamento ambivalente o sicuro; la distanza, l’irraggiungibilità, la mancanza di empatia, ad un attaccamento evitante; situazioni meno nette, con aspetti di polarizzazione contrastanti, ad uno disorganizzato. Per esempio, un paziente collaborativo, che segue le cure e riesce a confortarsi assomiglia a quel bambino della strange situation definito “sicuro”. Un paziente, invece, che appare sfiduciato, distaccato, che svaluta le cure e il sostegno assomiglia al bambino “evitante”. Un paziente per cui nessuna cura è sufficiente a tranquillizzarlo e confortarlo assomiglia all’ “ambivalente”.

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L’adulto che presenta un disturbo di personalità continua ad utilizzare, nella sua vita di oggi, gli stessi meccanismi difensivi con cui aveva tentato di difendersi dall’angoscia quando era bambino, contribuendo ora, con i suoi schemi di comportamento, a ricreare contesti che ripetono le caratteristiche di quelli che avevano provocato, allora, le sue sofferenze.

A questo punto è possibile fare delle proiezioni sulle modalità di interazione che ogni persona, in base all’esperienza vissuta nella relazione primaria, sarà capace di attivare nella relazione attuale con l’educatore.

Si può ipotizzare che i pazienti con un attaccamento evitante vs disorganizzato non si affideranno agli educatori. Il dolore e la sofferenza difficilmente saranno accessibili, così come sarà difficile per loro adattarsi ai cambiamenti che inevitabilmente la malattia comporta. Gli educatori saranno facilmente sottoposti ad una sorta di messaggio di rifiuto che li potrà portare ad allontanarsi, finendo così per confermare le premesse esistenziali di questi pazienti (la teoria che hanno su di sé e sulle relazioni affettive rilevanti). Per aiutarli sarà necessario, pertanto, una costante presenza, delicata e rispettosa della loro “distanza”.

Le persone con un legame di attaccamento insicuro evitante versus disorganizzato richiederanno attenzioni particolari, cure esemplari e saranno sprezzanti di fronte ai limiti giustamente imposti dagli educatori, proporzionalmente alla loro difficoltà di adattarsi alla malattia, che li farà sentire svalutati. E’ probabile che assumano atteggiamenti provocatori e mandino messaggi squalificanti, nei confronti degli operatori, provocando, nel caso in cui questi reagiscano con rabbia, disprezzo o allontanamento, un’escalation distruttiva della relazione.

La relazione di aiuto può essere, poi, maggiormente complessa con le persone che hanno manifestato atti violenti. Per aiutarli sarà necessario dare dei limiti ma essere costanti nell’accudimento, per contenerne la rabbia.

Le persone con un legame di attaccamento insicuro ansioso-ambivalente versus disorganizzato si presentano molto bisognose di cure ed attenzioni, richiedono, dunque, l’aiuto, ma questo sembra non bastare mai. Alternano fiducia a sfiducia nella relazione con l’altro, così come nell’immagine di se stessi. Gli educatori si dovranno aspettare di passare da uno stato di gratificazione reciproca, in cui c’è collaborazione massima, ad uno di rifiuto e rabbia, in cui c’è resistenza e svalutazione dell’aiuto. Per aiutarli, dunque, sarà necessario dar loro contenimento con regole e costanza.

Per le persone con un legame di attaccamento ansioso ambivalente o evitante, è possibile che nel contesto di accudimento si sia verificata un notevole scarto tra lo stadio di sviluppo, e quindi le capacità dei figli e i compiti che venivano loro richiesti. Sono persone che sembrano insicure di fronte al mondo circostante e alle persone. Le decisioni, gli incarichi, le relazioni appaiono cariche di apprensione. È come se non arrivassero mai a conquistare una accettazione interiore e una costante sicurezza personale. Sono individui, però, molto organizzati. Si può ipotizzare che saranno pazienti collaborativi in un processo di cura, seppur la malattia aumenterà il carico di paure e ansie rispetto a se stessi. L’educatore sarà sottoposto ad un’opera di continua rassicurazione, a volte snervante.

La malattia si inserisce in ognuna di queste storie e genera una nuova ondata di sofferenza e, quindi, un’esasperazione dei tratti difensivi disfunzionali. La malattia mentale, in particolare, può determinare una condizione di stress e di pericolo più o meno costante, attivando, pertanto, i legami d’attaccamento e la necessità di accedere ad una base sicura.

Gli operatori che ruotano attorno al paziente devono essere consapevoli che si inseriscono nei legami di attaccamento e nei tratti difensivi delle persone, attivando, a loro volta, i propri.


Il vissuto dei familiari nei confronti dei curanti

Vale la pena soffermarsi a esaminare il rapporto complesso che si instaura tra la famiglia dell’utente e i curanti, aspetto talvolta trascurato dalla letteratura. L’abbandono in cui si trova a vivere, la gran parte delle famiglie, è mediamente oggi il punto di partenza per una relazione molto complessa e difficile nei confronti dell’équipe curante. In effetti, la prima cosa che risulta evidente è una grande ambivalenza verso le leggi, i farmaci, le psicoterapie, i costi ... I meccanismi di difesa, soprattutto se si tratta di genitori, meno nel caso di fratelli o di partners, hanno un ruolo molto importante. Ecco quindi che il senso di impotenza e la caduta dell’autostima possono provocare un attacco alla cura, oppure sentimenti di gelosia e di invidia possono mettere in dubbio il sollievo e la riconoscenza verso i curanti. L’incertezza verso il futuro è un tema dominante, insieme a tutta una serie di problemi molto reali, come i tempi, i costi, la violenza, a volte presente, e il "che ne sarà dopo di noi". Esiste poi, una diffidenza molto diffusa nei confronti della psichiatria in generale, con il suo gergo difficile, che a volte tende a escludere i parenti, a trascurare le peculiarità dei diversi casi. Inoltre tra i famigliari è sempre più diffusa una sensazione sostanzialmente negativa: la psichiatria attuale, pur intesa e applicata nel modo migliore da tanti validi operatori, appare come un sapere congelato, un circuito chiuso su sé stesso, da cui molto difficilmente si riesce a uscire perché la "parte malata" non guarisce con i mezzi attuali. Ecco perché i nuovi filoni di ricerca sui recovery factors, i fattori di ripresa, e anche i lavori sui gruppi di self-help, sia per utenti che per familiari, sono visti con grande interesse e fiducia: si tratta, infatti, di operare sulla "parte sana", non più su quella "malata", sulla persona e non più sul sintomo. Si aiuta la persona in difficoltà a ripercorrere il passato, e basandosi sul suo vissuto, si cerca insieme “chi, cosa, quando e come” è stato d’aiuto, ha ridato speranza e ha riportato il futuro nelle sue mani. È un’ottica nella quale il ruolo importante dei familiari, opportunamente preparati e rafforzati nella loro autostima, viene riconosciuto ed essi possono finalmente collaborare come desiderano al progetto terapeutico-riabilitativo del loro congiunto.

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