Da qualche anno i media parlano spesso di giustizia minorile, e quasi sempre in negativo.
Forse ha ragione chi riconosce un intento per nulla casuale dietro certe esternazioni, un progetto culturale e politico fin troppo facile da leggere in filigrana e che riguarda tutta la magistratura, tutti i servizi pubblici. Sicuramente è un progetto fin troppo efficace, dato che parla all’emotività e sfrutta l’ignoranza (in senso letterale) di tanta parte dell’opinione pubblica che non sa nulla della materia, o il rancore di quella minoranza di adulti che invece qualcosa sa, per averne patito decisioni che magari li ha fatti soffrire, perfino quando erano decisioni giuste.
La prima cosa che ho imparato lavorando in un Tribunale per i Minorenni (TM) è che l’amore non basta, per crescere un bambino. Non basta il sentimento da solo, se non è accompagnato dal rispetto e dal senso di responsabilità. I genitori – tanti ne ho incontrati – che trascurano o fanno violenza sui loro bambini, o sulla partner e quindi indirettamente anche sui bambini, giurano di amare i figli e sono sinceri.
Effettivamente non vogliono loro male: semplicemente non li vedono. Non riconoscono i loro bisogni, le loro necessità.
Su alcune storie che hanno impegnato i media, mosse da genitori o nonni in protesta, ho avuto modo di apprendere aspetti concreti, documentati, che l’opinione pubblica non ha conosciuto. Ma quello che gli interessati non dicono - per convenienza o per una percezione alterata - i giudici o gli operatori non possono raccontarlo, per rispetto della privacy. Nella concomitanza di tutti questi fattori si nutrono false rappresentazioni che hanno un impatto grave sull’intero sistema.
La giustizia minorile accumula ritardi: questo è vero. Ci sono tante ragioni per i nostri ritardi. Se penso al TM di Bologna, che si occupa di tutta l’Emilia Romagna, le prime ragioni sono strutturali. Il nostro organico è lo stesso di settant’anni fa, abbiamo il peggior rapporto giudici-popolazione d’Italia, ovvero un sovraccarico di lavoro di difficilissima gestione. Nella nostra sede si è aggiunto un rapido turn over di giudici togati – e come è difficile, per un magistrato, lavorare su fascicoli nati con i predecessori e che non si conoscono; ci sono carenze nella comunicazione con l’esterno cui stiamo cercando rimedi. Dico solo che non bisognerebbe commettere l’errore di leggere le carenze organizzative, affrontabili, come piano occulto ordito ai danni di minori e famiglie.
In anni passati nella sede emiliano-romagnola ci sono stati contrasti tra visioni diverse della giustizia minorile. Anche i conflitti interni sottraggono energie al lavoro vero. Ci vuole tempo per accusare i colpi, confrontarsi, interpretare e difendersi, tempo sottratto al vero oggetto del nostro stare in tribunale.
Il giudice che più spesso parla alla stampa è stato oggetto di intervento da parte del CSM, non vi parlo di questo ma lui ne è cosciente (ne è cosciente?) benché tenda a non raccontarlo.
La cosa che a me disturba di più, in tutto quanto abbiamo vissuto, non è nemmeno che ci sia stata una difficoltà di relazione tra colleghi, che qualcuno sia stato maleducato o abbia alzato la voce. Io so, perché l’ho visto (e non sono certo l’unica nel nostro TM), quanti danni sono stati commessi ai danni dei bambini di cui ci occupiamo tutte le volte che chi doveva non ha deciso, o tutte le volte che un magistrato non ha creduto alle parole dei minori, e ogniqualvolta ha applicato convinzioni ideologiche ai casi concreti ignorando fattori di rischio gravi su maltrattamenti e abusi e danneggiando fortemente i bambini, in prima battuta, proprio lasciandoli in famiglie dove con altissime probabilità i maltrattamenti e gli abusi c’erano. Ostacolando, così, anche il lavoro dei servizi che avrebbero potuto proteggerli. (1)
Ecco questa è la cosa che mi brucia di più, di tutto quanto ho visto accadere negli anni passati. Quei danni, nessuno li vedrà mai risarciti, neppure si sapranno (i bambini maltrattati o abusati non vanno dall’avvocato, non parlano con i giornalisti) e non concorreranno alla formazione di una posizione – culturale, politica – più equilibrata, più rispettosa dei minori, sulle materie che ci interessano.
Intanto il discredito che viene gettato, sulla giustizia minorile come sui servizi o sui luoghi di accoglienza, riduce pesantemente la possibilità di costruire rapporti di fiducia indispensabili per intervenire sulle relazioni. Meriterebbe una reazione culturale forte e condivisa, e chissà se ne abbiamo la capacità e l’energia. Certo è avvilente per un giudice minorile trovarsi davanti un genitore che cita un magistrato (ex, ma il genitore lo ignora o lo considera una prova di eroismo) per spiegare che gli assistenti sociali sono tutti dei boia e le comunità educative “case di concentramento” che comprano i bambini, eludendo certamente e volentieri ogni propria responsabilità, che è poi l’unica di cui dovrebbe interessarsi.
Ora, per chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino qui, vorrei aggiungere che ci sono almeno due aspetti su cui io sento che siamo deboli. Questo “noi” non riguarda in particolare il tribunale per i minorenni di Bologna ma il sistema della tutela almeno per quello che ne vedo io, che è sicuramente molto poco rispetto all’insieme perciò mi scuso se dirò cose pleonastiche o non attuali.
La prima debolezza che riscontro riguarda il rapporto tra i tribunali e l’esterno. Io credo che per un po’ di tempo il giudice abbia potuto pensare di lavorare in un luogo separato, dove lui amministrava la giustizia e gli altri dovevano adeguarsi. Non diversamente da come gli insegnanti a scuola si sentivano indiscutibili e godevano di un consenso sociale legato al ruolo, comunque lo interpretassero. Un consenso che non c’è più. Forse i giudici vivono qualcosa di analogo. Non è scontato che le persone con cui lavoriamo vogliano ascoltare con rispetto e spirito di adattamento ciò che viene da noi.
I tribunali avrebbero, secondo me, anche il compito di far comprendere il modo in cui lavorano e le cose che decidono, e questo dal modo di organizzare la comunicazione alle forma delle decisioni che assumono.
So che i tribunali per i minorenni hanno velocità diverse, alcuni hanno già fatto tanta strada. Nella sede di Bologna sto vedendo molte buone recenti cose che incominciamo a fare, grazie anche al nuovo Presidente Giuseppe Spadaro, per andare in questa direzione e spero davvero si potranno consolidare. I momenti di transizione sono delicati: un errore millimetrico è un boomerang veloce e potente, dentro e fuori dall’organizzazione.
L’altra fragilità che io vedo è la mancanza di una cultura della ricerca e della valutazione. Non che non lo si faccia mai, né tocca tutto ai tribunali, ci mancherebbe!, ma io credo che andrebbe fatto molto di più.
Come sarebbe bello rispondere a critiche e illazioni con dati reali e densi di significato su cosa facciamo nei tribunali e nei servizi per i minori, su come lo facciamo, e a che cosa serve!
Prendendo decisioni giuste si può pensare di non dover essere anche efficaci, perché la giustizia e la tutela sono valori in sé, invece forse non è sufficiente. Sarà che ho una formazione sociologica, le statistiche mi divertono e le interviste mi entusiasmano, ma a me piacerebbe che come sistema di tutela conoscessimo l’impatto delle nostre decisioni. Ci orienterebbe progressivamente nel lavoro e renderebbe trasparente anche ai terzi il senso di ciò che facciamo. In diversi, e un pochino anch’io, qualche cosa si è fatto negli anni. Il difficile è sempre ricavare tempo, energie. Sarei entusiasticamente disponibile a confrontarmi con altri, se un giorno ci fosse l’opportunità di fare un ragionamento su questo.
L’ultimo pensiero (ed ecco, erano tre e non due) è ben collegato al precedente.
C’è una cosa di cui tutti i tribunali – ma pensiamo ora a quelli per i minorenni – sono ricchissimi: le storie. Siamo attraversati da centinaia di migliaia di storie. E quanto mi piacerebbe che una risposta naturale a certi attacchi venisse da chi di quelle storie è detentore, cioè dai molti adulti che hanno potuto costruirsi un’identità grazie a quell’affido familiare vissuto da bambini, o hanno seguito una strada diversa dalla devianza proprio perché sono entrati in quella comunità educativa, o hanno svolto quella messa alla prova… e quante mamme potrebbero raccontare di avere trovato protezione, insieme ai bambini, da un partner violento, per la decisione di un tribunale che ha dato risposta immediata alla loro richiesta di aiuto.
Ecco, gli esempi potrebbero continuare ma mi fermo qui, però penso sia chiaro il mio pensiero. Tutte le volte che facciamo cose buone e giuste ma non siamo in grado di comunicarle – non per propaganda, chi se ne importa della propaganda?, ma per fare cultura sui diritti dei minori – diventiamo un po’ più fragili nel nostro operato.
Il problema non è nostro, se svuotano i tribunali per i minorenni – abbiamo tutti un lavoro, lo svolgeremo da qualche altra parte – ma perché va a consolidarsi, come secondo me sta avvenendo, questa orrida concezione proprietaria dell’infanzia, quasi che il bambino fosse nella disponibilità dei suoi genitori. Che invece, un bambino non è dei genitori, non è degli assistenti sociali o dei giudici, ma è una persona, e un soggetto di diritto. Io credo che questa convinzione stia progressivamente arretrando e mi piace vedere come il sistema di tutela può lavorare anche a livello culturale per invertire la corrente.
(1) Il riferimento è a un articolo di Panorama del 7 novembre 2013, dal titolo: "Li chiamano affidi ma troppe volte sono uno scippo".
Disegni di Giulia Boari
Ferrara, 5 dicembre 2013