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La storia che sto per raccontarvi è tutta vera tranne per il nome della bambina. 
Margherita frequenta la scuola materna e allo scoccare della campanella, quando la mamma va a prenderla, si aggrappa al collo della maestra per esprimere la sua paura di tornare a casa.

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È disabile, la piccola, con limitazioni sensoriali piuttosto marcate. Tra le carte che la riguardano, trasmesse al tribunale per i minorenni, sono inclusi referti medici per lesioni, lividi, fratture ossee, e le intercettazioni ambientali di quanto accadeva in casa, dove Margherita veniva malmenata dai genitori, ogni giorno. Gli agenti di polizia nelle trascrizioni rintracciano elementi sufficienti per parlare di “tortura”. Tra le altre cose ci sono l’impedimento del sonno – la costringevano a stare ferma in piedi perché non si addormentasse e l’investivano di urla e botte se dormiva – e gli accordi tra i due su come picchiarla senza che restino segni visibili da quelle ficcanaso delle maestre.

Che cosa conduce due genitori a trattare in questo modo la propria bambina disabile? Gli insulti continui, prima durante dopo le percosse, erano mirati proprio alle sue difficoltà, la accusavano di fingere limiti che non aveva, o la rimproverano di non capire niente, di essere una mongola, un’handicappata. La disabilità, quindi, potrebbe essere centrale. Lungi da me dirlo per giustificare ciò che non lo è, la ricerca di un senso serve forse soprattutto a me per affrontare lo scempio.

Viene spontaneo immaginare che per loro quella figlia, l’unica, sia stata un simbolo di fallimento, o forse l’ostacolo a un futuro vagheggiato, anche solo in termini di immagine sociale, e sfumato dopo quella nascita.

Forse Margherita è stata una vergogna, un arretramento. Ai loro occhi certo non era una persona. A nessuno cui si riconosce la dignità di persona si possono rivolgere violenze simili. Il suo essere molto piccola, totalmente inerme e innocente rende tutto questo ancora più insopportabile. Sfogliare quelle carte è un magone per chiunque.

La storia di Margherita è rara ma non unica. Un numero non ce l’abbiamo. Quanti bambini sono maltrattati (o abusati, o altro) nel nostro Paese non siamo tanto bravi a dirlo perché, diversamente dal resto d’Europa, in Italia – mah – non siamo capaci di fare i conti. Voglio dire che non c’è una rilevazione statistica istituzionale, sistematica e affidabile sugli interventi di tutela. L’unica indagine nazionale in tal senso è del 2015, su dati 2014, condotta dal Cismai e da Terres des Hommes in collaborazione con il Garante nazionale dell’infanzia e speriamo venga rinnovata periodicamente.

Se uno sguardo globale ci manca, possiamo però procedere volta per volta. Di vicende simili a quella che vi ho raccontato ne ho incontrate più di una, in dodici anni, ed è un’esperienza privilegiata dare un contributo nel prendere decisioni, o ascoltare le persone direttamente coinvolte; quando hanno almeno 11-12 anni, anche i bambini. Se li rivediamo a distanza di tempo rileviamo progressi stupefacenti, rapidissimi, ogni volta che questi piccoli vengono sottratti ai maltrattamenti e accolti tra persone attente. Le loro potenzialità, frustrate per anni, non vedono l’ora di dispiegarsi, di compiersi.

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Di tanto in tanto qualche amico mi chiede come si fa, per anni, a guardare in faccia tanto dolore innocente. Cerco di spiegare che sapere di Margherita ed essere tra quelli che possono concorrere a metterla al sicuro, a darle una vita migliore, dà una forza interiore che basta a se stessa, buona a sostenere qualsiasi fatica. Oltretutto l’indignazione è una riserva di energia e a occuparsi di tutela dei bambini ci si può sempre contare. Ritengo, perciò, quello del giudice onorario minorile un servizio privilegiato oltre che una grande responsabilità.

Io non lo so se il rapporto tra questa bambina e i suoi genitori è rimediabile. Ho visto casi in cui lo è stato e altri che nemmeno a pensarci. Certo il papà e la mamma dovranno affrontare un processo penale che mi auguro stimoli un altro processo, interiore, per rendersi conto del male procurato. A volte questo non accade mai, e non è una buona premessa per ricucire.

Quando qualcuno attacca a dirmi “Chi meglio dei genitori può…”, mi sento come se si prendesse sul serio Babbo Natale: è bello credere che esista ma chi è adulto dovrebbe sapere che non è vero. La mia reazione più emotiva è singolare, posso ridere molto, o irritarmi molto.

La famiglia, le famiglie, per carità, tutte buone trovate per crescere e crescersi nella relazione con altri così importanti, e in tanti casi sono davvero una grande riserva di amore, ma non fingiamo di ignorare che proprio nelle relazioni più strette si consuma la gran parte dei maltrattamenti e abusi che riguardano l’infanzia. Gli orchi, quasi, non esistono. E io non posso non pensare a Margherita, alle sue fratture, alla morsa con cui si aggrappava alla maestra per ripararsi dalla mamma e dal papà.

Concedetemi, allora, un brindisi alla possibilità di mettere questa bambina in sicurezza, immediatamente, perché ogni minuto di più in quella casa è troppo per ciò che subisce in termini di dolore, fisico e mentale, e di rifiuto, umiliazione, solitudine.

Un secondo brindisi, riconoscente, voglio dedicarlo alle insegnanti di Margherita che hanno segnalato i loro sospetti alle forze di polizia dando il via a un’indagine molto approfondita. Già, perché è facile adesso trovarci tutti d’accordo sull’infamia, ma prima bisogna sospettarla, e verificarla. La rete, parola abusata, è messa alla prova in casi come questi, quando gli interventi di accertamento e di protezione devono collimare e armonizzarsi al meglio.

Quelle insegnanti non si sono girate dall’altra parte e nel far questo hanno corso dei rischi, quello di una reazione inconsulta da parte dei familiari, certo, ma prima ancora quello di affrontare i propri dubbi che sulle prime certamente avranno avuto, dubbi giusti. Il timore di sbagliare – forse è la bambina che si fa male… – e di incrinare con la propria segnalazione una supposta quiete familiare.

È vero, l’indagine avrebbe potuto scoprire che non c’era niente di brutto e sarebbe stata archiviata, ma prima avrebbe magari comportato qualche brutto quarto d’ora ai genitori. Sì è vero, c’è una quota di rischio. Ma il rischio sarebbe stato peggiore, tacendo. Margherita avrebbe continuato a vivere in condizioni impossibili dalle quali certo non poteva liberarsi da sola. Per la sua disabilità, forse neppure in adolescenza avrebbe potuto farlo.

Eppure, benché obbligatorio per legge (è un reato non farlo), segnalare non è da tutti, tra gli insegnanti o i medici c’è pure chi teme, immischiandosi, di rovinare una famiglia.

Rovinare che cosa? Una famiglia?

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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