Erano tre sorelle e tutte e tre d’amor, canta una ballata popolare. Così erano loro, e tutte minorenni. Succede, in tante famiglie immigrate, che gli scontri generazionali dell’adolescenza si complichino con i conflitti culturali e questo era uno di quei casi.
Amavano cantare, era uno dei problemi. E s’innamoravano, come tutte le ragazze: un altro problema. Per i genitori, persone colte e devote, possidenti in Pakistan e integrati in Italia con un lavoro molto ben avviato, era impensabile ritornare in patria ma ancor più lo era lasciarsi svergognare da quelle ragazzine senza onore né rispetto. Il progetto sulle figlie era che arrivassero al diploma, possibilmente anche alla laurea per assicurarsi un futuro e un lavoro prestigioso come medico o avvocato, disponibili però a rimanere in casa quando fosse arrivato un fidanzato, poi un marito, scelto, come si conviene, da papà e mammà. E se lo studio era un obiettivo che le ragazze condividevano, con qualche distrazione riprovevole agli occhi dei genitori, il matrimonio combinato a loro proprio non andava giù.
I compagni di scuola di sesso maschile erano un po’ belli un po’ brutti, un po’ in gamba un po’ no ma in ogni caso reali e stimolanti più di qualsiasi cugino di sesto grado mai visto in faccia, residente in qualche remoto paesino pakistano. E se il permesso di frequentare gli amici non arrivava mai, neppure quello di scendere in piazza senza la scorta di un uomo di famiglia per godersi un gelato e un po’ di allegria, il permesso di sognare non va chiesto a nessuno, le ragazze se lo prendevano e basta. Rintanate nella loro camera cercavano musica in rete e si esercitavano a cantare, con il sogno neppure troppo celato di farne un mestiere. Talentuose? Illuse? Non so. Fantasticavano, come dalle nostre parti un’adolescente può fare.
Le liti in famiglia si accentuavano giorno dopo giorno, i genitori erano sempre più allarmati temendo una vera ribellione e reagivano con quel tira e molla che spesso accade, un giorno la carota per non perdere il legame con i figli adolescenti e quello dopo il bastone per raddrizzarli. Peccato che il bastone, in quella famiglia, non avesse niente di metaforico. Dai e dai, la più grande decise di confidarsi a scuola.
Preoccupata per la ragazza l’insegnante fece ciò che doveva, cioè parlare con la dirigente scolastica, la quale a sua volta fece ciò che doveva, ovvero segnalare ai servizi sociali, e anche loro fecero ciò che dovevano, vale a dire riportare le dichiarazioni alla procura per i minorenni che espresse un ricorso al tribunale per i minorenni. Se tre ragazze rischiano un matrimonio forzato e vengono picchiate sistematicamente il compito dello Stato è proteggerle e sono diversi i casi, meno controversi di questo, nel quale ho assistito ad un intervento efficace.
Anche per loro la protezione scattò, non attraverso un allontanamento da casa. Ci chiedevamo: allontanare chi?, le ragazze sono tre, una sola ha raccontato, il sospetto molto forte è che tutte siano coinvolte ma bisogna accertarlo… Tutti i membri del nucleo avevano buone risorse culturali e di consapevolezza, in più erano legati tra loro, e anche noi non volevamo calcare troppo la mano. Optammo per un intervento educativo, psicologico, di mediazione culturale rivolto alle ragazze e ai genitori, separatamente e insieme. Un periodo di osservazione e di confronto per stimolare una revisione dei rapporti familiari. Insieme a questo stabilimmo per le ragazze il divieto di espatrio onde evitare che i genitori le riportassero in Pakistan per sottrarle al controllo della giustizia minorile.
Nel tempo ci siamo chiesti se abbiamo fatto la scelta giusta, dopotutto abbiamo scommesso in una possibilità di cambiamento che, meno drastico, può essere anche più costoso di un distacco temporaneo o della prevalenza di una parte sull’altra. Stavamo offrendo una opportunità senza provocare troppo dolore o stavamo indicando un obiettivo poco comprensibile e troppo ambizioso? In quel momento non era dato saperlo.
Nel periodo dell’indagine sociale i genitori diedero il meglio di sé in una iper produzione di sensi di colpa. Le fanciulle si trovarono più che mai dilaniate dal personalissimo dilemma tra identità e appartenenza ad una famiglia che dopotutto aveva assicurato loro, per molti aspetti, un’infanzia dorata, e in quel tormento rimasero schiacciate. In pochi mesi decisero di rimanere nel solco del progetto familiare e non perché ne abbracciassero il disegno, ma perché oltretutto i genitori avevano incominciato ad accusare problemi di salute forse fisici, forse di origine psicosomatica, forse ipocondriaci. Tutte e tre le cose sono possibili, davvero non so. So che dopo una prima udienza nella quale ciascuna delle tre fanciulle aveva riportato con dovizia di particolari tutto ciò che aveva subito e sofferto – ed era molto davvero, in gran parte dalla madre – pochi mesi dopo chiesero di tornare. Vennero insieme a sminuire tutte le dichiarazioni precedenti, a giustificare le reazioni dei genitori, a colpevolizzarsi.
(Come è facile immaginare, anche il giudizio delle tre adolescenti sulla segnalazione della scuola è cambiato di conseguenza e più volte nel tempo, da ancora di salvezza a intrusione indebita nella vita privata, e questo un rischio che con gli adolescenti si corre sempre, occorre essere abbastanza forti per tenerlo in conto e fare ugualmente il proprio lavoro. Se qualche volta ne manca la forza possiamo sempre ricordarci di Farah, la ragazza veronese di origine pakistana portata in patria a forza e costretta ad abortire, o di Sana, uccisa a Brescia e seppellita in giardino per lavare la colpa di essere troppo occidentale).
In una ulteriore camera di consiglio (composta da 4 giudici, così si decide nei tribunali per i minorenni) decidemmo di confermare il progetto già stabilito, che dopotutto non ostacolava la ricomposizione dei legami ma stimolava a stare insieme in modo più aperto, con attività pomeridiane e possibilmente musicali per le ragazze e la possibilità per i genitori di conoscere passo passo ciò che veniva proposto.
Tempo dopo il padre volò in Pakistan per una questione di famiglia e fece sapere che lì si era ammalato gravemente, tanto da necessitare un ricovero piuttosto complesso. Si presentarono a sorpresa, le tre ragazze, a supplicare il tribunale di annullare il divieto di espatrio, mangiate dal senso di colpa qualora il papà fosse morto all’improvviso senza il conforto delle figlie per le loro stupide confidenze da ragazzine.
Il tribunale acconsentì e loro promisero di rientrare entro un mese per riprendere la scuola a cui tenevano molto ma il permesso all’espatrio non si può dare a tempo, o c’è o non c’è, e a quel punto c’era. Le ragazze partirono e a distanza di molti mesi ancora a scuola non si erano viste. Il tribunale prese informazioni presso i servizi sociali: nessuno sapeva niente. Venne l’avvocato dei genitori a dirci che i genitori avevano deciso di rimanere in patria fino a quando anche la figlia minore sarebbe diventata maggiorenne, anche a costo di mandare all’aria il lavoro italiano così ben retribuito se questa era l’unica via per far crescere le figlie secondo la tradizione. Come poi si siano mescolati, nelle ragazze, l’adesione e la ribellione, l’adattamento o il rimpianto, non abbiamo potuto sapere.
Questa storia ha lasciato l’amaro in bocca a tutti i giudici che se ne sono occupati. Le prime udienze avevano raccolto dichiarazioni gravi, convinte, documentate e coerenti, non abbiamo pensato fossero frutto di fantasia. La risposta istituzionale però, benché corretta nella forma e nella sostanza, non ha raggiunto il risultato sperato. O forse occorre prendere atto del limite: il tribunale ha svolto il suo compito, quello di aprire una strada, un’infinità di fattori andrebbero chiamati in causa per spiegare come mai le ragazze hanno rinunciato a percorrerla; in sintesi, il costo emotivo dev’essere stato troppo alto e non sopportabile per riuscire a proseguire.
Un’amica mi ripete spesso che ognuno di noi ha bisogno di sapere “di chi è”, un ragionamento che capisco e riconosco ma, portato all’estremo, rifiuto sia intellettualmente sia visceralmente, per la mia storia e per quella di tanti altri. Occorre prendere atto però che questo bisogno esiste, non in tutti è forte allo stesso modo.
Penso ad un’altra ragazza, pakistana anch’essa e da poco maggiorenne quando ha chiesto aiuto trovando, tra l’altro, la solidarietà della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati. Costretta in casa da un padre violento fino all’arrivo del fidanzato sconosciuto cui già l’aveva venduta, è riuscita a chiedere aiuto alla mamma in Pakistan, che ha contattato un parente in Piemonte, il quale ha avvisato i carabinieri in Emilia, che immediatamente l’hanno raggiunta e liberata lavorando insieme ai Servizi Sociali.
Quella ragazza è stata poi accompagnata in una comunità, e dopo quella in altre perché non venisse ritrovata dalla comunità pakistana che minacciava di farle la pelle, e ha potuto imparare l’italiano e trovare un mestiere. Ma per lei è stato più facile: la mamma era dalla sua, il padre lo aveva appena rivisto dopo anni di distacco e la prima cosa che aveva conosciuto di lui era stata la violenza programmata. Sacrificare quel rapporto non le costava granché.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta