I più giovani 13 anni, i più vecchi 19. Sono i 25 (o 26?) ragazzi indagati e fatti perquisire dalla Procura di Siena per la loro partecipazione attiva alla chat “The Shoah Party”. Un giornalista aggiunge: tutti di famiglie bene.
Molti più giovani sono entrati e usciti, come si ascoltano le prime note di una canzone che però non piace e si cambia musica. Teniamoli a mente, questi che hanno preso le distanze senza aspettare la perquisizione. Ci ricordano che il senso critico è possibile anche tra gli adolescenti. Non i geni ma quelli che hanno la testa e la usano, il cuore pure.
Non così dovremmo dire dei 25, per cui si parla di detenzione e divulgazione di materiale pedopornografico e istigazione all’apologia di reato avente per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali.
Tra i contenuti della chat, sappiamo, esaltazione della sopraffazione in tutte le forme possibili – stupri, lesioni, umiliazioni, insulti… – per ragioni anche contraddittorie tra loro: nazifascismo e terrorismo islamico contemporaneamente, ad esempio, e poi pornografia, pedofilia, rifiuto di tutte le persone percepite deboli come i disabili, i migranti, i poveri, i neonati. Una serie esorbitante di messaggi, anche 600 al giorno, da ragazzi di tutta Italia.
Le perquisizioni sono avvenute in 19 province ma l’indagine è radicata nella Procura di Siena (e, per gli under 18, in quella presso il Tribunale per i Minorenni di Firenze) dove vive la madre, l’unica, che si è rivolta alle forze dell’ordine. Era lo scorso gennaio. Il figlio, non ancora quattordicenne, non potrà essere indagato in quanto non imputabile, ma la mamma non ha problemi a dire che lo avrebbe denunciato anche avesse avuto un anno in più, e c’è da credere che sia vero. Il contrappeso lo danno le decine di genitori che sono stati zitti, perché non lo sapevano o perché, pur sapendolo, non hanno dato peso alla questione.
“Era uno scherzo” non dovrebbe essere una valida giustificazione. Non lo è per la giustizia – ho lavorato molti anni accanto a un bravo giudice che era solito spiegarlo agli imputati durante il processo: se sapevi quello che stavi facendo sono preoccupato, se non eri consapevole lo sono ancora di più – e non dovrebbe esserlo neppure per i genitori, gli insegnanti, gli adulti in genere.
Breve parentesi autobiografica. Lo scorso anno vado in una scuola superiore per un incontro. All’uscita, mentre saluto l’insegnante, ci scuote un rumore di vetri infranti e qualche scheggia ci cade accanto. È successo questo: uno studente, in un momento di rabbia, ha lanciato un possente dizionario contro la finestra. Durante l’inevitabile ramanzina, occhi puntati sul pavimento ha ripetuto mille volte “Non volevo, oh!” che era come dire “Smettetela di tediarmi, che cosa volete da me?”. Nella sua ottica contavano solo le intenzioni: avesse voluto davvero farci male avremmo avuto tutte le ragioni per avercela con lui, ma dal momento che non era questo il suo obiettivo, con quale diritto l’insegnante si permetteva di sgridarlo, addirittura di chiamare i genitori (che oltretutto era di quinta, cioè maggiorenne cioè maturo, come i fatti dimostrano)?
È vero, non era successo niente di grave. Per puro caso o fortuna, per qualcuno angelo custode, karma, destino o chissà che. Il piccolo salto, quello che in alcuni adolescenti manca, ha a che fare da una parte con il senso di realtà, dall’altra con il desiderio di un limite che mi pare esprimano a gran voce.
Le due cose non sono disgiunte, la realtà ci pone continuamente dei limiti. Se guido all’impazzata su un viale, di notte e sotto la pioggia, facilmente perdo il controllo e gli alberi sono il mio limite. Posso tenerne conto e rallentare, oppure ignorarli e sfasciare l’auto e me (e il tronco contro cui vado a sbattere e a cui darò la colpa, se sopravvissuta).
Tagliare gli alberi – qualche amministrazione lo fa o pensa di farlo – è un modo per cancellare il limite, non la sventatezza. E ci si può fare molto male anche quando i platani sono stati sacrificati e si precipita nel fosso, nel canale, nel burrone, o addosso alla vettura di un altro. Il problema, cioè, non dovrebbe essere cancellare i limiti ma imparare a vederli, a farci i conti.
Nel rapporto educativo è più complicato, specie se si parla dell’immateriale che corre in rete. Ma se tanti ragazzi in quella chat sono entrati e usciti è senz’altro perché hanno avuto la capacità di valutare negativamente ciò che hanno visto. Una capacità che, io credo, avranno maturato prima di tutto nel rapporto con gli adulti. Dopo di che non hanno detto niente agli adulti e se ne sono disinteressati, qui si apre tutt’un’altra questione ma non la seguiamo adesso.
Ciascuno di noi filtra la cronaca in base a ciò che sta vivendo. Per me la notizia dello “Shoah Party” arriva pochi giorni dopo aver ripensato agli orrori nel lager di Bolzano durante la seconda guerra mondiale. Forse per questa suggestione, e non so se a torto, mi viene spontaneo augurare ai ragazzi di non essere continuamente risparmiati dal contatto reale con la mancanza e la sofferenza, esperienze possibilmente accompagnate e rivestite di senso nel rapporto con coetanei e adulti, così come vorrei auspicare adulti capaci di accompagnare i ragazzi in quelle esperienze per metabolizzarle e cercarne il senso.
Penso veramente che la mia generazione, quando si trova ad essere genitore o zio, educatore o insegnante, sia talmente incapace di sostenere la sofferenza dei ragazzi da parare tutti i colpi, quando vengono dalla vita – prima o poi capita – come quando sono le conseguenze delle loro azioni e a forza di smussare gli spigoli li spingiamo a crearli, tanto non sono veri per davvero, tanto non fanno male a nessuno.
Tra gli intervistati sullo “Shoah Party” c’è anche il papà di un 14enne riconosciuto dagli inquirenti come amministratore della chat. Davanti ai giornalisti ha sostanzialmente scusato il figlio con argomenti parecchio discutibili. Riassumo: “dicono fosse un amministratore ma non è vero, ha solo fatto una cagata”. Ancora, spiega il padre, “nei video c’era una bambina nuda ma a lui non ha fatto impressione, era come essere in spiaggia, in fondo è un bambino anche lui”.
Ora io non so di quale bambina parlasse in quel momento il signore, se della neonata seviziata da un adulto o della bimba di 11 anni che rideva facendo sesso con due maschietti un po’ più grandi di lei. Nelle spiagge che frequento io ci si ferma al secchiello e al gommone, di più non riesco a collocare. Ma se il peso più grave per un padre è che il figlio, poverino, ha dormito con lui stringendogli la mano per l’angoscia, e non riesce – il padre – a cogliere quanto quell’angoscia sia una benedetta occasione non per schiacciare il ragazzo ma per diventare apertura e consapevolezza, forse un problema come adulti ce l’abbiamo davvero.
Giorgio Gaber invocava che i figli, trattati come deficienti ma con i polmoni sani (“Non si fuma nella stanza del bambino!”), accendessero un rogo e si liberassero degli orpelli. Questi ragazzi il fuoco lo accendono sì, con gli obiettivi sbagliati, ma la radice in fondo è quella.
Sono spinta dal serissimo dubbio che alcuni giovani si esaltino contro il disabile, la neonata, il migrante di turno proprio perché non hanno mai consolato, fasciato, accarezzato, spinto una carrozzina o cercato di comunicare in una città straniera non conoscendo la lingua. Protetti dalle frustrazioni e dalle sbucciature sulle ginocchia, dalla noia e dai no, e in più accessoriati con apparecchi potentissimi come una Ferrari prima della patente, rischiano di fare male, di farsi male, per immaturità che diventa crudeltà, mancanza di empatia, stupidità a volte.
Per qualcuno ci sarà anche lo spirito di rivalsa: il creatore del Party lo hanno intervistato, si giustifica malamente. L’interessante è che ha la passione per la fisica quantistica (non parrebbe del tutto stupido, o banale) e riporta di aver subito, insieme alla sua famiglia, esperienze di discriminazione. Non sappiamo di che tipo né perché, ma anche a lui auguriamo una buona ricerca.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta