C’è la guerra combattuta a pezzi, pezzi di guerra tanto lontani da noi. Poi c’è la gente della guerra che sbarca sulle nostre coste, che attraversa la frontiera stipata tra la merce.
“Dei ragazzi che arrivano con i barconi dalla Libia, non c’è nessuno che non sia passato per il carcere”, mi racconta un meraviglioso educatore che coordina una comunità per minori stranieri non accompagnati.
A prendere sul serio l’impatto del trauma nelle vite di ciascuno, ci sarebbe da attrezzarsi in fretta per dialogare con persone che questo hanno vissuto.
Basma è stata segnalata dagli operatori di un campo di accoglienza per rifugiati. È una donna somala, accolta insieme al suo bambino di pochi mesi al quale spesso si rivolge in modo inadeguato, scostante. Ora brusca e quasi manesca, ora trascurante o inaccessibile come se il bambino le fosse di troppo.
Non ci siamo riusciti a trovare un mediatore adatto e l’assistente sociale mi mette a disposizione un servizio di interpretariato telefonico adoperato dal suo servizio: io compongo un numero di Milano dall’apparecchio del tribunale per i minorenni di Bologna, all’altro capo risponde un operatore che mi mette in comunicazione con l’interprete di cui ho bisogno, è una signora molto tenera e con un ottimo italiano.
La comunicazione procede a singhiozzi, io pongo la mia domanda al telefono con l’interprete – mentre lo faccio guardo negli occhi Basma, chissà mai che qualche parola le arrivi, o almeno il tono di voce, penso, almeno la voce – poi passo la cornetta alla signora, che ascolta la stessa domanda nella sua lingua e risponde anche a lungo, e di nuovo riprendo il ricevitore per ascoltare in italiano ciò che Basma ha appena spiegato.
Come si è capito è tutto piuttosto brigoso, niente a che vedere con un buon ascolto, ma almeno la mamma è messa nelle condizioni di capire tutto ciò che viene detto e lo stesso vale per me.
Non possiamo fare discorsi troppo intimi, non in queste condizioni. Lo imparo dall’assistente sociale che Basma ha una bambina in patria, dieci anni, ed è in pensiero per lei. L’ha affidata al papà ed è scappata in fretta – era già incinta – ma ora ha paura che subisca la stessa mutilazione genitale che anche lei porta su di sé e le procura, da anni, tanto dolore, accentuato dopo i parti.
Per questo assillo e per la mancanza, la preoccupazione, il disorientamento, l’incapacità di vedere un qualsiasi futuro e il desiderio che un futuro sia invece possibile, per i figli almeno, Basma è scostante, brusca, a volte stizzita e a volte affondata tra i cuscini e con nessuna voglia di giocare. E no, non è del bimbo la colpa di tutto questo, ma in un certo senso non è neppure sua.
Sulle prime mi è più difficile provare compassione per Misha, ucraino, sfuggente alle leggi e alle istituzioni. Un uomo orgoglioso e pieno di vigore che però diventa violento quando beve e litiga con la sua famiglia.
Ce ne occupiamo, certo, noi della giustizia minorile proteggiamo i bambini dalle mamme trascuranti e dai papà violenti. Difficile per me capire se ne abbiamo i mezzi, quando apprendo che Misha ha alle spalle una dura carriera di militare e quello che ha visto, ha fatto, ha subito, io non lo so.
Neppure posso farmelo raccontare nel tempo di un’udienza, cerco almeno di tenerne conto. Quando mi trasmette che la “valutazione delle capacità genitoriali” o i “colloqui psicologici” sono per lui concetti alieni e non per via della lingua, non posso non interrogarmi.
L’onda lunga della guerra lambisce le nostre case, sfiora i bambini che le abitano, plasma le loro infanzie, il futuro, il carattere, come già ha fatto con i genitori.
Allora penso ai tanti padri e madri maltrattanti che incontro, italiani o stranieri non importa ma con una storia personale, spesso molto drammatica. Sposta poco, in teoria, che un genitore sia violento per un abuso intrafamiliare o per la guerra, per la disoccupazione o per le mutilazioni genitali femminili.
Sposta poco in teoria, ma in pratica non riesco ad evitare di pensarci. Mi conforta ricordare che le prime esperienze terapeutiche su soggetti traumatizzati sono state fatte con i reduci di guerra, poi mi dico che almeno c’era un’omogeneità sotto l’aspetto culturale, psicologi statunitensi con reduci statunitensi.
Con Basma, con Misha, la faccenda è un’altra. Si capisce, parlo di differenze linguistiche ma non solo di quelle.
Non riesco ad evitare di chiedermelo, e di pensare che facciamo un cattivo servizio ai loro bambini se osserviamo gli strattoni di Basma, i piatti rotti di Misha, e ci fermiamo a quello che si vede. Occorre altro, abbiamo bisogno di altro, per tutti loro e per noi. Chissà se ne siamo capaci.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta