“Quando incontro i ragazzi delle scuole medie mi fanno mille domande”, è il commento immediato di Ben mentre usciamo dalla scuola superiore dove, invece, è stato ascoltato in silenzio. “In fondo questi avevano già quasi vent’anni…”.
Mi chiedo come sia stato per quei ragazzi ascoltare il testimone di un’adolescenza completamente diversa dalla loro, che non immagino necessariamente spensierata ma ha sicuramente problemi diversi. Benyamin Somay, curdo iraniano, a 20’anni lavorava da 17, prima pastore e poi fornaio, e la scuola era un sogno accantonato per forza a 13 anni. Alla loro età prendeva le parti del suo popolo, in modo non armato, sapendo di rischiare. Una vita tutta diversa da quella di un coetaneo italiano. Poi chissà, dietro l’impassibilità apparente qualcuno si sarà indignato o commosso, alcuni usciti dall’aula avranno commentato tra loro o avranno cercato informazioni su internet attraverso il cellulare. Difficile comprenderli, gli adolescenti.
Con la presentazione del libro di Benyamin Somay, “Il vento ha scritto la mia storia” (ed. la meridiana), abbiamo concluso a Ferrara il ciclo #primaleggopoiparlo che aveva a tema le migrazioni ed era promosso dall’associazione Tutori nel tempo (riunisce i tutori volontari dei ragazzi stranieri soli nella nostra città) in collaborazione con il Comune, il Centro Servizi per il Volontariato Agire Sociale e altre realtà locali. Ogni autore è stato impegnato di pomeriggio in una presentazione pubblica e il mattino dopo in una scuola superiore.
Negli istituti precedenti l’interazione c’era stata eccome e anche qui l’insegnante è molto brava, capace di coinvolgere gli studenti e di ascoltarli. Incontrando classi dai piccoli ai grandi mi dispiace vedere sminuita nel tempo e nel percorso scolastico la curiosità, la capacità di mettersi nei panni degli altri o quel poco di coraggio che ci vuole per non tenere nascosti i pensieri e condividerli con i compagni.
Come relatore Ben è davvero bravo, appassionato, gentile, autentico. Capace di raccontarsi facendo leva sui punti di contatto con chi lo sta ad ascoltare. Ai ragazzi – tra i 16 e i 20 anni – parla degli studi interrotti, della ragazza che ha dovuto lasciare fuggendo precipitosamente dal suo paese, del caro amico incarcerato e poi impiccato perché, racconta, “insieme aiutavamo i partigiani curdi con azioni non militari ma di supporto: chi sta in montagna ha bisogno di vestiti, di mangiare, di scaldarsi”. Il carcere, l’impiccagione sarebbero stati anche il suo destino se non avesse deciso in un lampo di fuggire in Turchia e da lì in Grecia dove si è imbarcato per l’Italia. L’inferno della traversata durato sei ore lo ricorda come il momento peggiore di un viaggio tutto faticoso.
“Ho pagato il trafficante senza sapere a che cosa andavo incontro. Lì veramente ho desiderato morire. Avevo in mano mezzo biglietto per la vita, mezzo biglietto per la morte. Il gommone doveva andare molto veloce per non imbarcare acqua, faceva buio, freddo, i corpi degli altri mi si stringevano addosso, le onde ci colpivano continuamente”.
È scappato anche dall’Italia perché in Danimarca aveva amici che lo avrebbero aiutato per la casa o il lavoro e il suo sogno era raggiungerli a Copenaghen. L’ha realizzato ma per poco: in base al Trattato di Dublino, dopo pochi mesi è stato rispedito nel nostro paese dove era stato identificato inizialmente (e così gli studenti hanno valutato in concreto gli effetti di quel Trattato, chissà quali erano i loro pensieri), e di nuovo ha cambiato tante città e luoghi di accoglienza.
Racconta con calore del parroco che in Puglia lo ha preso con sé, primo ragazzo straniero di una serie, quella che era una casa ora è un centro di accoglienza. Ricorda con gratitudine di chi lo ha spinto e sorretto per scrivere la sua storia e di ogni volta che è stato aiutato e accolto, ma è franco nel denunciare la violenza e l’ingiustizia. Il fatto che chi lo ascolta non abbia un sussulto visibile di sdegno o di ribellione immaginando ciò che altre persone subiscono continuamente, a me lascia interdetta.
È Ben a dare un senso all’incontro e lo fa in modo accorato. Quando ricorda che ci sono luoghi nei quali i bambini non possono studiare, le ragazze rischiano il carcere per come sono vestite, si aprono le porte della galera per un’opinione dissenziente… le sue parole sfuggono alla retorica, forgiate come sono dall’esperienza diretta.
Benyamin Somay vive da diversi anni a Verona dove ha lavorato prima come fornaio e ora come gelataio nella catena “È buono” dell’associazione Agevolando, quella fondata da giovani adulti usciti da percorsi di comunità o di affido, ma è anche impegnato come mediatore per i migranti curdi, iraniani e… tutti quelli di cui conosce la lingua, lo chiamano nelle prefetture del Veneto e oltre. Lavora tanto, come sua madre – che non ha più riabbracciato da quando è andato via, per fortuna esistono le videochiamate – e come tutti i membri della sua famiglia, si capisce che il lavoro è per lui una radice forte, la sua dignità. Mi fa capire meglio perché l’articolo 1 della nostra Costituzione recita che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Ormai stabilmente nel nostro paese, dove è contento di restare, ha ripreso gli studi. Ha superato l’esame di terza media e tutt’ora frequenta una scuola serale per arrivare al diploma, gli piacerebbe un giorno diventare guida turistica. Ma è anche appassionato di storia e curioso di quella italiana. I partigiani nella seconda guerra mondiale, i terroristi degli anni Settanta sono per lui elementi di confronto per rileggere la ribellione del suo popolo – partigiano, terrorista. Ci ritroviamo a parlare insieme di Alexander Langer e di don Tonino Bello, due figure che conosce e ama profondamente.
Rispetto ai relatori che a Ferrara lo hanno preceduto – Gholam Najafi e Luca Attanasio – Benyamin Somay ha aggiunto un tema. Oltre a parlare di migrazione, in modo autentico e non mediato attraverso la propria esperienza, ha portato la testimonianza di un popolo perseguitato.
“Nessuno sa niente sul popolo curdo, per questo vado in tante città a parlarne. Potevo scegliere di combattere in montagna con le armi o qui in Italia con le parole. Ho scelto le parole”.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta