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Qualche giorno fa mi sono chiesta per quale motivo il telegiornale ci parlasse di Iman, la bambina siriana di 18 mesi morta tra le braccia del padre che sperava di raggiungere in tempo un ospedale, per salvarla.

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Me lo sono chiesta e non certo per sottovalutare la notizia. Mi sembrava un tassello di un mosaico di bambini in guerra e non capivo perché era stato scelto, perché Iman e non ad esempio Ghufran, di 4 mesi, un’altra piccolina che non ha resistito al freddo. Poi mi sono detta che ancora una volta – e dovrei forse dire purtroppo – le storie sono un modo più efficace per parlare a tutti noi.

I bambini siriani che stanno morendo restano un dramma che non vediamo, un tutto indifferenziato. Se invece parliamo di una bambina, di nome Iman, 18 mesi, con la bronchite, abbracciata al padre, intirizzita… ogni dettaglio ce la rende avvicina. Abbiamo tutti da qualche parte nella retina un’immagine domestica a cui riferirci. Sappiamo com’è un bambino piccolo scosso dalla tosse, abbiamo negli occhi il suo viso quando piange o ha paura. E leggendo il post Facebook del medico dell’ospedale che infine ha accolto padre e figlia…

“Questa mattina presto, una bambina è arrivata nel nostro ospedale di Afrin. L’ha portata suo padre dalla tenda in cui vivono a pochi chilometri da qui perché accusava problemi respiratori. Le ha messo addosso tutto ciò che possedeva per tenerla al caldo. Ha fatto tutto il possibile per scaldare il suo cuoricino. L’ha abbracciata forte e piangendo ha camminato dalle cinque del mattino nella neve e nel vento. Ha camminato tra le macerie del suo Paese. I suoi arti erano congelati, ma il suo cuore continuava ad abbracciarla. Ha camminato per due ore prima di arrivare al nostro ospedale. Quando siamo riusciti a separarlo dalla figlia, abbiamo visto il viso angelico della bambina, sorridente. Ma immobile. Abbiamo provato a sentire i battiti del suo cuore ma era morta! Un’ora fa! Quest’uomo ha portato fino a qui il corpo della figlia senza sapere che fosse già morta”.

…e se leggiamo davvero questo post, sentiamo che le lacrime sono molto vicine, visibili o invisibili non importa. Vuol dire che Iman ci riguarda. Secondo fonti siriane e internazionali anche il papà, Mahmud Laila, è morto poco dopo la figlia. Profugo originario della regione di Damasco, era sfollato assieme alla famiglia almeno altre tre volte. Una vita in fuga.

Sulla Siria stiamo ricevendo notizie. Le ONG chiedono di fermare la guerra, lo ha ripetuto Papa Francesco all’Angelus del 16 febbraio. Secondo le Nazioni Unite, dal 1° dicembre si sono messe in cammino tra le ottocento e le novecentomila persone, per la stragrande maggioranza donne e bambini, senza un posto sicuro dove andare. I bambini e i ragazzi, stando a una nota recentissima di Save the Children, sono almeno 290mila. Sono state chiuse 278 scuole nella città di Idlib e nelle campagne, e oltre 160.000 studenti sono rimasti senza istruzione. Campi profughi sovraffollati, ospedali bombardati, tende fragili e insufficienti a fronte di un inverno rigidissimo. Iman non è un caso unico, anche altri come lei sono morti di freddo, i bambini sono i più vulnerabili. Una desolazione difficile anche da immaginare.

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Rintraccio segnali di vita e di resistenza, più o meno noti, più o meno flebili, tutti significativi e dalla parte delle vittime. Li riunisco qui: due film e due progetti.

Alla mia piccola Sama (in originale, For Sama) è la videolettera che la regista e giornalista Waad al-Kateab, 26 anni, siriana, scrive alla sua bambina temendo di non vederla crescere, per spiegare perché è voluta rimanere in Siria insieme al marito Hamza, padre della piccola e tra i pochi medici rimasti in quell’area. Il film è in uscita in Italia, è candidato a prestigiosi premi internazionali tra cui l’Oscar come miglior film straniero, e ha il patrocinio di Amnesty International.

Anche il docufilm Mother Fortress ha una firma femminile e racconta la vita delle donne durante la guerra in Siria, documentando in special modo quella delle religiose e la lotta quotidiana per salvare la dignità di chi è stato travolto dal conflitto siriano. È stato proiettato in anteprima a Roma, al cinema Farnese, il 18 febbraio. Nasce dall’incontro tra la regista, Maria Luisa Forenza, e Madre Agnes, badessa del Monastero di Qarah, una comunità monastica internazionale a nord di Damasco dove la Forenza ha trascorso diversi periodi per comprendere e documentare.

#Nonlasciamolisoli è l’iniziativa di Aibi, l’associazione Amici dei bambini: una campagna di raccolta fondi in favore dei bambini della Siria. «Attualmente – ha affermato il presidente di Aibi, Marco Griffini – siamo l’unica organizzazione umanitaria italiana ancora presente nei campi profughi della provincia di Idlib, una delle zone più martoriate della Siria, dove, assieme al nostro partner storico Kids Paradise, stiamo portando avanti, in mezzo a incredibili difficoltà, un progetto di sicurezza alimentare. La situazione però è sempre più drammatica e ora, con questa nuova campagna, vogliamo estendere e intensificare la portata dei nostri interventi di emergenza a favore dei bambini dei campi profughi». I fondi serviranno per acquistare beni di prima necessità come coperte, vestiario, scarpe, alimenti per neonati, presidi medico-sanitari, e per organizzare spazi di sollievo e di gioco, attivare interventi di supporto psicologico e fornire il pane quotidiano attraverso un forno mobile.

Il secondo progetto è quello che IRC, The International Rescue Committee (una organizzazione che interviene in tutto il mondo nelle più gravi crisi umanitarie) e Sesame Workshop (la onlus che sta dietro a Sesame Street, i creatori del Muppets Show per intenderci) stanno conducendo in Siria, Giordania, Libano e Iraq settentrionale a favore di donne e bambini rifugiati. Per la Siria in particolare, oltre a proporre alcuni dei muppets classici, sono stati creati nuovi pupazzi con nomi e caratteristiche in linea con il contesto per aiutare i bambini ad imparare e per farli ritrovare il sorriso. Ecco Jad, che è stato costretto a lasciare la sua casa, o Basma, l’amica dei nuovi arrivati, e Ma’zooza, una capretta che li segue dappertutto. La prima fase del progetto sarà dedicata ad alcune emozioni e sentimenti – la rabbia, la paura, la frustrazione, la solitudine – per aiutare i più piccoli a superare il trauma della guerra, e c’è da credere ce ne sia molto bisogno.

Deve averlo pensato anche quel papà siriano – ci ricorda il personaggio interpretato da Benigni nel film “La vita è bella” – che si è filmato insieme a Selva, la figlia di 4 anni (vedi anche immagine di copertina), mentre fanno il gioco delle risate. I boati vengono da armi giocattolo piccola mia, non c’è proprio niente di cui avere paura.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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