Che cos’hanno in comune un frullatore a immersione, una gonna, una conserva di limoni, un asciugamanino da bidet, una tazza e una canzone? Apparentemente nulla, forse un’estensione del binomio fantastico suggerito da Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia come scintilla per dare inizio a una storia.
In verità questi oggetti sono già parte di una trama, quella intessuta negli ultimi dieci anni dal Centro per le famiglie di Ferrara con il progetto Una famiglia per una famiglia, pensato e divulgato in Italia da Fondazione Paideia grazie al bravissimo e caro Roberto Maurizio e a tanti altri operatori e operatrici insieme a lui.
Leggo sul sito della Fondazione: “Una famiglia per una famiglia è la sperimentazione di una nuova forma di affiancamento familiare: una famiglia solidale sostiene e aiuta una famiglia in situazione di temporanea difficoltà, coinvolgendo tutti i componenti di entrambi i nuclei. (…) Con questa nuova forma di affiancamento ci si propone di prevenire l’allontanamento dei bambini dalle proprie famiglie, sostenendo le figure genitoriali e fornendo risposte concrete alle esigenze educative e di crescita dei bambini. Sviluppato dalla Fondazione Paideia a partire dal 2003 nella città di Torino, il progetto è attualmente promosso in altre città e province italiane come nuova forma di sostegno familiare”.
Attualmente il progetto è praticato in 9 regioni italiane: Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Abruzzo.
Conosco meglio l’esperienza emiliana, anzi ferrarese, insomma quella della mia città, condotta da colleghe brave e sensibili. Insieme a loro, per festeggiare i dieci anni di attività, sto conducendo interviste di gruppo con alcune famiglie affiancanti – e a breve anche con quelle affiancate – per un momento di verifica. Ogni incontro svela tesori impossibili da racchiudere in poche righe.
Chi sono gli affiancanti? Famiglie normali, colorate, caotiche, vivaci. A volte due genitori altre volte uno solo, qua tanti bambini e là nessuno. Hanno in comune il desiderio di essere concretamente di aiuto agli altri. Quando hanno figli, entrano nel progetto anche per offrire loro un’esperienza di incontro con altre persone, adulti e bambini, che portano con sé diversi modi di pensare, di cucinare, di giocare e di vivere.
E chi sono le famiglie affiancate? Vivono a Ferrara ma hanno le loro radici in Italia, Romania, Nigeria, Marocco, Pakistan, Bulgaria, Camerun… Spesso, non sempre, sono mamme con bambini senza un partner convivente, o con un partner assente molte ore al giorno per motivi di lavoro. Possono essere famiglie con problemi di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura, nuclei che per qualche ragione – la difficoltà economica, la malattia o disabilità di un membro, la fatica di integrarsi in una nuova città – rischiano di implodere, trascurare i bambini, adottare comportamenti sbagliati nei loro confronti. Oppure i genitori rischiano di perdere il lavoro, di essere costretti a interrompere gli studi, perché non hanno un aiuto nel crescere i figli. Non sono famiglie perfette ma neppure disfunzionali, maltrattanti o abusanti. Si collocano su un crinale pericoloso, quello della solitudine e della distanza dalle reti sociali, e le famiglie affiancanti fanno da tramite, diventano i nonni e gli zii, i genitori e i fratelli o sorelle che quei bambini, quei genitori, non hanno.
Con il frullatore a immersione aiutano una giovane mamma sola, lontana dalla propria madre, ad affrontare lo svezzamento. Con la conserva di limoni recepiscono la ricetta della mamma marocchina che loro hanno sostenuto aiutando i figli a fare i compiti o andando a scuola insieme a lei a parlare con gli insegnanti. Con l’asciugamanino da bidet, aggiunto in bagno, trasmettono al bimbo che passa tanti pomeriggi insieme a loro, e gioca con i loro bambini, che in quella casa c’è posto anche per lui.
I riscontri che arrivano dalle famiglie affiancate sono sorprendenti, non miracolosi. So di donne vissute in condizioni di sottomissione e analfabetismo nel paese d’origine che nel tempo hanno imparato l’italiano, hanno preso la patente e sono riuscite orgogliosamente a seguire i figli con le loro forze; coppie che hanno scoperto un’affettività e un dialogo negati dai ruoli di genere troppo rigidi imposti dalla loro cultura; genitori che hanno scoperto il piacere di giocare con i figli oltre al dovere di sgridarli e dare regole.
Nessun miracolo tuttavia. Alcuni obiettivi di cambiamento non sono stati raggiunti, come per quella mamma che ha iniziato e poi interrotto il tirocinio lavorativo non ritrovandosi – il motivo non lo sappiamo – in uno stile di vita diverso. Anche alcune condizioni di bisogno sono rimaste tali, o si sono aggravate nel tempo quando i bambini poco curati sono diventati adolescenti e hanno presentato il conto, oppure quando una donna straniera è scomparsa da un giorno all’altro insieme ai figli ed è forte il dubbio che sia stata allontanata di forza dal marito, prima che si prendesse troppe libertà.
Quasi al di là dei risultati, in queste storie di affiancamento c’è un modo di porsi che fa bene. È attenzione alle persone, apertura, curiosità, mancanza di giudizio, possibilità di affetto. Tante relazioni sono proseguite nel tempo anche oltre il termine del progetto che per l’appunto ha un tempo. Spesso sono diventate paritarie, e quando il figlio di una famiglia affiancante si è preparato per la gita scolastica in Bulgaria alla mamma affiancata, che per l’appunto era bulgara, non è parso vero di consigliargli le cose da non perdere e quelle da non fare.
Per certi versi l’affiancamento familiare è una storia al femminile, se è vero che nasce dalla cura dei bambini e la cura, si sa, tocca ai due genitori ma alle mamme di più. Così il supporto nell’educazione dei figli diventa un confronto tra donne a tanti livelli. “Ho scoperto che le culture sono diverse ma le emozioni sono uguali”, sintetizza ottimamente una mamma affiancante. E per quanto turbata dalla violenza esplicita che ha incontrato nelle storie delle donne affiancate – a scuola nei paesi d’origine, dai genitori, dal partner – riconosce come il dolore, la gelosia, il desiderio di riconoscimento siano trasversali ad ognuna di noi.
Quanto alla fiaba, beh, ormai un tentativo andava fatto.
Un giorno un frullatore a immersione decise di frullare tutto quello che gli capitava a tiro. Gli altri oggetti della casa erano terrorizzati. Solo una canzone – che non poteva essere frullata, ma non per questo era indifferente – decise di levarsi per scuotere gli abitanti di quell’appartamento sonnecchiante. Si ribellarono per primi una gonna e un asciugamanino da bidet finiti nello stesso cesto dei panni sporchi. Insieme riuscirono a sollevare il coperchio di vimini e dissero al frullatore: “Eh no! Ci frullerà la centrifuga della lavatrice, per ripulirci, non tu per distruggerci!”. Al sentire queste parole la conserva di limoni, rimasta fin lì in silenzio, decise di esporsi. “I miei limoni devono restare interi per accompagnare bistecche e arrosti, non certo spappolati come vuoi tu”. E la tazza, che da anni era segretamente innamorata della conserva, superò la timidezza e disse la sua. Fu così che…
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta