Conosco una donna dell’Est europeo non ancora cinquantenne. La chiamerò Ilona.
Vive in Italia da diversi anni, come i genitori anziani che hanno bisogno di cure ma stanno in un’altra città e lei deve fare su e giù per occuparsi di loro. In Italia si era pure sposata, è rimasta vedova prima di acquisire la cittadinanza.
Ho incontrato Ilona per lavoro predisponendo i lavori di pubblica utilità della sua messa alla prova. È imputata in un processo penale iniziato nel 2018, sospeso a favore di un progetto con cui potrebbe – prima ancora di un’eventuale, ma probabile, condanna – ripagare il suo debito verso la società. Il reato di cui è accusata è quello di clandestinità, e finché non ha i documenti non può trovare un lavoro in regola, e finché non termina la messa alla prova non può chiedere i documenti. Ha però bisogno di lavorare. Per questo fa la badante per un anziano. Dedica alla messa alla prova metà del suo giorno libero settimanale e a voler dire è pochissimo, secondo il giudice dovrebbe fare più ore, ma Ilona mica lo può dire in tribunale che è una badante in nero, così tra pochi mesi potrebbe essere oggetto di un provvedimento di espulsione.
Ilona indietro non ci vuole tornare, ormai è radicata qui. In Italia ha fatto l’aiuto cuoca, la colf, la badante. Si dà da fare volentieri. Nella messa alla prova dovrebbe svolgere mansioni più nobili ma la trovano spesso con lo straccio in mano, dispiace agli impiegati che non vogliono umiliarla e hanno ragione, ma ho il dubbio che per lei spolverare sia un modo per sentirsi utile con quello che è sicura di saper fare. Cucinare poi le mette allegria, peccato che nei nidi e nelle scuole materne non ci siano più le mense comunali…
Ilona ha anche un compagno, italiano, che la ospita, ma spesso beve e quando beve la picchia. Lei lo ha denunciato e voleva andarsene, poi minacciata ha ritirato la querela. Succede a tante. Oltretutto la casa rifugio che le avevano proposto era per gran parte occupata da donne di una cultura totalmente diversa dalla sua, e non per razzismo ma per mancato riconoscimento Ilona è tornata dal compagno che invece è fin troppo prevedibile. Quante volte un male conosciuto appare preferibile a un futuro incerto.
Certo si potrebbe pensare che deve andarsene dall’Italia punto. O che deve affrontare ogni sacrificio possibile per allontanarsi dal compagno violento e completare alla svelta la sua messa alla prova, e pazienza se non potrà lavorare e per un periodo faticherà a mettere insieme il pranzo con la cena. Eppure mi è difficile tirare questo tipo di somme. C’è una bilancia molto personale su cui ciascuno di noi sistema i costi e i ricavi, ma anche l’uovo e la gallina, e una personalissima dose di fatalismo o di speranza nell’indeterminato.
Allora io sono un po’ arrabbiata con il mio Paese che costringe una donna come Ilona a vivere appesa per un reato illegale, mentre da anni si dà da fare per pulire, fasciare, alzare, stirare, affettare, sbollentare. E mi piacerebbe che il futuro non le fosse sbarrato per il semplice fatto di essere nata dalla parte sbagliata del mondo.
Siccome la sua storia è una di tante, neppure la più drammatica che si potrebbe raccontare, e non può essere compresa solo vista al microscopio, consiglio uno sguardo al Dossier statistico sull’immigrazione 2021. È curato da Idos che già nell’introduzione, “Il pendolo del gattopardo”, a firma del presidente Luca Di Sciullo, non risparmia niente all’Italia per come da decenni affronta il fenomeno migratorio.
Qualche informazione la riporto sulla condizione delle donne migranti in Italia. Nel 2020 sono il 51,9% del totale degli stranieri residenti, ovvero oltre 2,6 milioni di persone. Poiché gli stranieri nello stesso anno sono l’8,5% della popolazione residente in Italia, approssimativamente possiamo dire che le donne straniere sono il 4,5% di tutti noi. Eppure, da sole, rappresentano il 24% di coloro che hanno perso l’occupazione nel 2020 e l’11,4% tra i contagiati covid sul lavoro. Sul totale degli stranieri invece, pur essendo la metà, sono soltanto il 10,5% di quanti hanno avuto accesso alla cassa integrazione ordinaria e il 24,3% di quella straordinaria, e non perché abbiano mantenuto il lavoro: nel 2020 l’occupazione tra le donne straniere è diminuita del 4,9%; del 2,2% tra gli uomini stranieri, 1,6% tra le donne italiane, 1,3% tra i connazionali maschi.
Infine, tra quanti hanno cercato di accedere alla regolarizzazione “emergenziale” e “straordinaria” avviata nel 2020 anche per ragioni di sicurezza sanitaria, il 39,7% è composto da donne che lavorano nei servizi domestici e di cura, ma il sentimento di urgenza non si è tradotto in pratica se è vero che a fine luglio 2020 solo il 27% delle domande era giunto a definizione.
Quella delle donne straniere in Italia è una condizione doppiamente svantaggiata in un quadro già pesantemente discriminante. In generale, ci informa ancora il Dossier, la povertà assoluta che in Italia affligge 5,6 milioni di persone riguarda il 29,3% degli stranieri e il 7,5% degli italiani. In cambio gli stranieri sono i più esclusi dalle forme di sostegno al reddito e contrasto alla povertà (assegni per famiglie indigenti, bonus bebè, reddito di cittadinanza, case popolari…) in base a norme nazionali o regolamenti comunali discriminatori, periodicamente dichiarati tali da un giudice italiano o europeo come più volte è accaduto anche nella mia città.
L’ultima sentenza che conosco riguarda la Carta Famiglia, una card senza limiti di reddito consegnata alle famiglie con almeno 3 figli, o 1 figlio per il solo anno 2020. Rilasciata nel 2019, era riservata ai soli cittadini comunitari ma una recentissima sentenza Cedu l’ha dichiarata discriminatoria in virtù delle direttive europee 2009/50, 2003/109 e 2011/98. La limitazione della Carta ai soli cittadini italiani e comunitari costituisce una violazione della parità di trattamento tra italiani e stranieri nell’accesso a beni e servizi, in quanto esclude sia i titolari di permesso di lungo soggiorno, sia i titolari di permesso per lavoro o famiglia.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta