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Fosse proprio vero che il nostro Paese, nell’accoglienza delle persone straniere, predilige quelle che riconosce come simili – cosa di cui siamo giustamente accusati, insieme al resto d’Europa, per una commozione diseguale di fronte a vittime di catastrofi simili – ci sarebbe almeno un effetto collaterale positivo: il riconoscimento della cittadinanza italiana ai ragazzi e alle ragazze nati da genitori stranieri, nei nostri confini o altrove, ma in ogni caso cresciuti in Italia.

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Effettivamente, è difficile pensare a qualcuno che sia più vicino a un adolescente italiano, di un compagno o una compagna di classe che abbia un altro passaporto ma le stesse passioni e abitudini, la stessa fifa delle interrogazioni non programmate e lo stesso desiderio di trovare il proprio posto nel mondo.

Leggo sul report Istat “Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia” (2020): “Per quanto concerne i consumi e la formazione delle amicizie, ma anche per aspetti più privati, come la religione, il fatalismo e l’incertezza, i ragazzi stranieri nati in Italia o arrivati da piccoli sono risultati più simili ai ragazzi italiani dello stesso ceto sociale che a quelli giunti in Italia più grandicelli”.

Parliamo di una quota di popolazione estremamente rilevante sotto ogni profilo, innanzitutto quantitativo. Ha avuto una crescita molto rapida negli ultimi trent’anni. Ancora Istat: “Gli stranieri residenti in Italia con meno di 18 anni erano circa 26 mila al censimento del 1991, 285 mila a quello del 2001 e oltre 940 mila a quello del 2011. Secondo i dati anagrafici sarebbero diventati un milione e 40 mila all’inizio del 2018. Una cifra accresciutasi di 40 volte in un quarto di secolo” e approssimata per difetto, non includendo ad es. chi acquisisce la cittadinanza italiana o i figli di coppie miste.

Fosse possibile affrontare il tema lasciando da parte ideologie e false pretese identitarie per guardare semplicemente alla realtà, sarebbe a tutti evidente che chi vive in Italia e qui va a scuola, intreccia relazioni importanti, sviluppa i propri sogni… è italiano quanto qualsiasi altro giovane che la cittadinanza l’ha ricevuta per via ereditaria.

Nella mia città, che in Emilia-Romagna non è certo al primo posto per l’accoglienza, dove i migranti rappresentano circa il 9% della popolazione residente, tra i bambini sotto i 6 anni quasi 1 su 4 è straniero. Nuova linfa per le nostre comunità artritiche e poco capaci di rinnovarsi. Una politica lungimirante investirebbe su questi ragazzi, sul loro inserimento scolastico, sulle loro intelligenze e sulla capacità di pensiero plurale, secondo appartenenze multiple, come raccomandava Alexander Langer nel suo sempre attuale Tentativo di decalogo per una convivenza interetnica.

Di riforma della cittadinanza si torna a parlare in questi giorni, a trent’anni di distanza dalla normativa attualmente in vigore. Diverse proposte di legge si confronteranno in Parlamento. Ne ho visionate quattro. Quella presentata dall’on. Boldrini adotta lo ius soli: è cittadino italiano chi nasce in Italia da almeno un genitore regolarmente soggiornante da un anno o più.

Nella proposta dell’on. Polverini diventa cittadino italiano chi nasce in Italia e completa qui il corso di istruzione della scuola primaria, oppure chi risiede legalmente da almeno tre anni nel nostro paese e supera un esame di lingua e cultura italiana.

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Secondo l’intendimento del deputato Orfini, acquista la cittadinanza italiana il minore straniero nato in Italia o arrivato prima dei 12 anni che frequenta almeno 5 anni di scuola e, se si tratta di istruzione primaria, è necessario ottenga buoni risultati scolastici.

È stata depositata pochi giorni fa la proposta dell’on. Brescia, non troppo dissimile dalla precedente. Per i minorenni, requisiti sono l’essere nati qui o arrivati entro i 12 anni e l’avere frequentato la scuola per almeno 5 anni, senza però la pretesa del successo scolastico che – come fa notare la rete promotrice della campagna “Dalla parte giusta della storia” – porrebbe una responsabilità del tutto impropria sulle spalle degli insegnanti, ricattati nelle loro valutazioni per non diminuire le possibilità di integrazione dei loro allievi non italiani.

È una preoccupazione giusta, dal momento che ancora questi ragazzi hanno un rendimento scolastico complessivamente meno positivo, principalmente per difficoltà linguistiche. L’italiano per studiare non è lo stesso che serve per farsi capire nel quotidiano, ed è ostico. Accade così che, ancora oggi, il primo inserimento nella scuola sia spesso con almeno un anno di ritardo sull’età e, dopo la licenza media, i più preferiscano gli istituti professionali ai licei, in parte ipotecando le proprie possibilità future.

Su questi temi si lavora anche dal basso con campagne mirate. Oltre a quella citata poco più sopra ricordo almeno l’impegno della rete G2 – Seconde generazioni, “un’organizzazione nazionale apartitica fondata da figli di immigrati e rifugiati nati e/o cresciuti in Italia”. Il sito precisa: “chi fa parte della Rete G2 si autodefinisce come figlio di immigrato e non come immigrato: i nati in Italia non hanno compiuto alcuna migrazione, e chi è nato all’estero ma cresciuto in Italia non è emigrato volontariamente, ma è stato portato in Italia da genitori o altri parenti. G2 quindi non sta per seconde generazioni di immigrati ma per seconde generazioni dell’immigrazione, intendendo l’immigrazione come un processo che trasforma l’Italia, di generazione in generazione”. Mi sembra fuor di dubbio che si tratti di un processo trasformativo, in cui niente e nessuno resta uguale a se stesso, non chi accoglie e neppure chi arriva.

Ritengo miope pensare – come alcuni affermano – che occuparsi di riforma della legge sulla cittadinanza sia fuori luogo mentre si combatte una guerra nel centro dell’Europa. Peraltro non sono pochi i minorenni ucraini nati o quantomeno cresciuti nel nostro paese, e se è nel senso comune di questi giorni pensare con tenerezza al loro futuro, non vedo perché non dovremmo rivolgere la stessa attenzione ai giovani migranti che cercano riparo da altre guerre, da altre crisi umanitarie o ambientali.

Nell’atteggiamento di chi scuote la testa, “con quello che sta succedendo, pensano alla cittadinanza…” intravedo la convinzione che sì, se ne potrebbe parlare in momenti di prosperità, quando ci si può permettere di lanciare le briciole agli uccellini, non quando manca il pane sulla tavola. A me hanno insegnato che il pane dei diritti non si esaurisce, anzi si moltiplica quante più persone ne hanno nutrimento. Perciò sono persuasa che anche a questo proposito una politica di pace sia quella che legge la realtà e riconosce l’uguaglianza nel rispetto delle differenze, e della Costituzione Italiana.

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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