La retorica della guerra insiste sui bambini. Un’amica mi scrive su questo, infastidita. Si domanda per quale ragione la vita di un bimbo dovrebbe valere di più di quella di un ragazzo di vent’anni, o di un vecchio di novanta.
Sono d’accordo con lei eppure capisco le ragioni della retorica: i più piccoli sono il simbolo perfetto dell’innocenza calpestata, della promessa tradita. Se la vittima che merita commozione è quella incolpevole, e solo a quella condizione ha diritto di essere difesa e soccorsa, nessuno è adatto allo scopo più di un bambino. E inoltre: è più probabile creare consenso intorno all’invio di armi all’Ucraina se pensiamo servano ad aiutare quei bambini. Ci mostrassero le componenti nazionaliste ucraine, le armi gliele affideremmo meno volentieri.
Anche restando all’innocenza occorre ampliare lo sguardo. Chi cresce nella guerra è vittima comunque, e non da una parte sola. Elvira Zaccagnino, direttrice editoriale della casa editrice “la meridiana” e donna di grande impegno, intelligenza, sensibilità, in uno dei suoi post attenti, su Facebook scrive: «Come stanno i bambini e le bambine in Russia? Quanto pesano su di loro le sanzioni, la chiusura, le notizie di guerra? Vanno a scuola in questi giorni? Sono curati in ospedale, hanno da mangiare? E i bambini che hanno visto partire i loro padri per la guerra? Hanno paura che non ritornino? Li sentono eroi o assassini? Ho cercato per curiosità come funziona il sistema scolastico russo e ho scoperto che l’anno inizia il primo settembre, detto il Giorno del Sapere. Si tratta di un giorno di festa. Sia i bambini che i genitori indossano abiti da cerimonia, portano splendide acconciature. Quello russo è un modello scolastico da regime, ma i bambini non lo sanno. Non possono scegliere. Non scelgono il Paese in cui nascere. E poi penso che i bambini e le bambine russe in questi giorni non possono fuggire, cercare riparo dalla guerra che non li colpisce con le bombe ma con le sanzioni. I bambini e le bambine di chi attacca e di chi è attaccato hanno diritto alla festa non alla guerra».
Il suo pensiero si accosta ad altro che ho in mente in questi giorni. I bambini e le bambine di chi attacca e di chi è attaccato vivono insieme nelle nostre città e hanno diritto, qui, ugualmente, alla festa e non alla guerra. All’accoglienza e al dialogo, e non a covare odio.
Un bambino russo che frequenta una scuola elementare della mia città si è presentato alla maestra addolorato, protestando: “Ma io non sono cattivo!”. E la questione non riguarda soltanto i più piccoli. Una studentessa universitaria russa si è rivolta a un’insegnante che stima raccontando, in lacrime, che gli amici ucraini con i quali ha condiviso il percorso fin qui, dal 24 febbraio non la chiamano e non le parlano più.
La dirigente scolastica del piccolo, una donna speciale, mi spiega: “Nel nostro istituto scolastico sono presenti alunni di 20 nazionalità, tra cui quelle russa, ucraina, polacca, bielorussa… Posso immaginare che in casa i bambini ascoltino i discorsi degli adulti e non esprimo nessun giudizio, ma per noi è molto importante che la scuola sia un luogo sereno per tutti, di convivenza e di amicizia”.
Da qualche giorno penso a questo ulteriore tassello, che si aggiunge alle molte cose importanti da fare per gli amici e le amiche della nonviolenza: coltivare da qui un dialogo di pace.
Nelle nostre città vivono comunità russe e ucraine che vivono sulla loro carne il conflitto, in un modo che io non posso capire. Il loro stare da una parte sola è del tutto comprensibile. A chi mi dice che è umano, odiare tutti i russi se si è ucraini perché ognuno degli “altri” rappresenta il proprio paese aggressore, dico di sì. Il fatto che questa reazione sia istintiva e naturale – né sono sicura che farei di meglio al loro posto – non significa che sia anche la migliore, o la più fruttuosa, quella che li aiuterà domani, e noi con loro. Perciò penso sia importante incoraggiare anche qui ogni possibilità di dialogo tra i bambini russi e ucraini, tra i giovani, le donne, le comunità ucraine e russe.
Non penso sia facile. Non so ancora come potremmo farlo, con che diritto, né se in questo momento sia possibile curare iniziative come queste o potrà avvenire semmai in un imprecisato “dopo”. Sono convinta, questo sì, che questi interrogativi ci riguardino, e riguardino proprio noi in quanto non siamo visceralmente coinvolti nella guerra in corso. I nostri familiari non sono sotto le bombe né vivono nel paese da cui le bombe partono e, come ripete un uomo meraviglioso, abbiamo il dovere di usare il nostro privilegio, possediamo una lucidità maggiore che possiamo mettere a disposizione degli altri.
Calando il tema nel piccolo universo familiare ripenso a “Filumena Marturano”, la commedia che Eduardo De Filippo scrisse per sua sorella Titina e che riprende tanto della loro infanzia. Filomena ha avuto tre figli, li ha cresciuti a distanza. Solo uno dei tre è di Domenico Soriano. A lui che insiste, non dirà mai quale dei tre è figlio a lui, perché tutti ricevano gli stessi aiuti, lo stesso affetto. Ce lo insegna Filomena, madre generosa e anomala: legame di sangue oppure no, ‘e figlie so’ ffiglie.
p.s. il disegno con le colombe della pace che si oppongono ai carri armati mi arriva dalla scuola primaria dell’Istituto Comprensivo “C. Govoni” di Ferrara. Non dirò se l’autore è un bambino russo o ucraino.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta