Non avevo mai conosciuto Renzo. Lo incrocio di sfuggita in sala d’aspetto con la sua mamma. È un ragazzo alto, magro, con un naso lungo e gli occhi chiari. Ha un sorriso appena accennato, vigile e riflessivo, ma che sembra sempre pronto ad aprirsi su tutto il volto. Un volto pulito, da bravo ragazzo che suggerisce una provenienza da “famiglia bene”. Senza cicatrici o imperfezioni che tradiscano un passato difficile.
Lui e la mamma non c’entrano niente con quella sala d’aspetto, e infatti danno nell’occhio. Non ha 16 anni appena compiuti. Ha un’età indefinibile, il colletto della camicia a posto e una maturità che esonda quel corpo di adolescente, come ne meritasse già uno da giovane adulto.
E non aveva 14 anni e mezzo, poco più di due anni fa, in quel giorno soleggiato di luglio, a Milano, fuori dalla fermata della metro di Sant’Agostino quando, rientrando a casa per pranzo, si è imbattuto in Gionny.
Quante volte avevo provato ad immaginarmi quel volto, quando, provocando Gionny, gli dicevo che forse adesso quel ragazzo era chiuso in casa, con le tapparelle abbassate, terrorizzato e incapace di uscire, e obbligato a pensare che il mondo è un luogo pericoloso, dal quale proteggersi.
Quante volte avevo provato ad immaginarmi quel volto, quando, provocando Gionny, gli dicevo che forse adesso quel ragazzo era chiuso in casa, con le tapparelle abbassate, terrorizzato e incapace di uscire, e obbligato a pensare che il mondo è un luogo pericoloso, dal quale proteggersi.
E invece, guarda un po' chi ho davanti!
Mi avvicino e mi presento. Gli do la mano e lo ringrazio di essere venuto, gli dico che non è usuale, che è la prima volta che mi capita. E che è una fortuna che ci sia.
Renzo è un ragazzo che si fa voler bene e la sua mamma trasuda orgoglio per lui. E io la guardo con naturale ammirazione e affetto spontaneo, perché vedo il suo sguardo che infonde fiducia, senza parole che anticipano o sostituiscono,certa che lui le ha già tutte e sa cosa dire, perché ci pensa bene e non teme il giudizio. Lei non è contenta per il buon lavoro che lei ha fatto: è contenta per i risultati che lui ha raggiunto.
Mi scopro incredulo a pensare che Renzo, forse, non l’ha neppure mai giudicato Gionny. Quel giorno è stato sopraffatto dalla sorpresa: uscendo dalla metro aveva visto di sfuggita quel bel ragazzo dalla faccia pulita, appena segnata da una cicatrice sul labbro e lo sguardo triste, che quasi aveva invidiato, pensando che trasmetteva quel fascino oscuro che lui non aveva. Vestito quasi come lui, solo un po' meno ordinato e un po' più originale, poteva essere un compagno di classe di qualche anno più grande. Uno che magari ti insegna qualcosa della vita, ti fa divertire un po' e ti fa conoscere le ragazze. Non si immaginava che uno così tirasse fuori un coltello e, neanche il tempo di capirlo, gli prendesse l’iPhone, lo Swatch e i soldi dal portafoglio per poi scappare come un fulmine. E lui lì, impietrito, senza parole e con un’immersione nella vita più buia che lascia senza fiato. Poi di corsa a casa, a raccontare tutto ai genitori, spaventato, col cuore che batte forte e la voglia di essere abbracciato. E loro lì, ad abbracciarlo, a rassicurarlo, a dirgli che tutto era finito, che non si era fatto male, che il cellulare lo si poteva ricomprare.
Ma intanto, Renzo, appena passata la paura, iniziava già a chiedersi il perché...
Un perché che ancora non sapeva, quando lo incontro con la mamma. Ma è venuto lì per provare a capire, per rivedere quel ragazzo con la cicatrice sul labbro a cui lui non ha fatto niente.
Ma davvero, Renzo, non gli hai fatto niente?!
Non sa ancora Renzo che lui è un pugno nello stomaco per Gionny. Per quel ragazzo più grande di lui, con lo sguardo triste che piace tanto alle ragazze, fisico da fotomodello, niente da invidiare a nessuno. Quel ragazzo, Gionny, va fuori di testa quando vede un altro ragazzo che ha quello che lui non può avere. Gli succede soprattutto quando qualcosa va storto, quando gli sembra che non ce la farà, che gli altri ce l’hanno con lui e non lo capiscono. E non gli vogliono bene. Quando pensa che tutto questo non sia giusto e che gli hanno portato via tutto. Allora cerca di riavere quello che non ha: in tutti i modi, non importa come. Anche, come se fosse possibile, provando a rubarlo.
No, caro Renzo, non parlo dell’iPhone e dello Swacht o dei soldi nel portafoglio. Lui non voleva rubarti quelle cose. Ma questo non lo sa neanche Gionny. O forse non lo sapeva. Adesso sta iniziando a capirlo anche lui. Prima pensava che rapinando i più fortunati poteva fregargli la fortuna. Un passaggio meccanico, come trasferire un bene, una semplice questione di proprietà. No Renzo, quello che disperatamente Gionny cercava di rubarti, non era il tuo iPhone 4di colore nero. Lui voleva portarti via quelli che ti avevano comprato quell’iPhone.
E questo Gionny lo ha iniziato a capire da quando, ormai da questa estate, va a cercarlo ogni settimana, con la paura e la voglia di rivederlo. E lo trova sempre lì, ogni volta nella stessa panchina e si siede lì, di fianco a lui, quasi senza parlare, portandogli la spesa e facendogli solo compagnia. E sperando di non trovarlo bevuto come l’ultima volta, cercando di aggrapparsi a quel poco che ancora gli rimaneva di quel papà, che mai era riuscito a fare il papà, se non per una cosa: c’era sempre stato e non lo aveva mai abbandonato, anche se non poteva esserci davvero. Un brandello di genitore, ridotto ai minimi termini, sola presenza silenziosa, quasi a ruoli invertiti. Eppure per Gionny questo è sufficiente.
E come avviene spesso nel nostro lavoro, la realtà irrompe sulla scena educativa, sparigliando le carte. Portando originalità, creatività e visioni nuove. Una realtà che, di per sé, non “educa”, non può farlo, ma offre nuove occasioni per “educare”.
Non come la mamma, che se mai Gionny potesse capire che è matta persa, forse potrebbe darsene una ragione, provare a comprendere che non c’è colpa, che la follia non ha logiche comprensibili e non è contro qualcuno. È solo contro se stessi, Gionny. Se la vedesse così, se un giorno, chi lo sa, la guardasse con occhio materno, magari riuscirebbe a perdonarla. E invece lei, ai suoi occhi, semplicemente se n’è andata, non li ha più voluti, lasciandoli in balia del papà ubriacone e dei servizi sociali che, quando sono arrivati, hanno diviso fratelli e sorelle.
Gionny, quando vede il Renzo di turno, non può tollerare che lui, se gli succede un guaio, può scappare a casa a chiedere aiuto. E trovarlo. Sempre. E trovare soprattutto occhi, braccia, parole. Competenti e affettuose.
Renzo ancora non sa tutto questo quando il giudice lo fa entrare in udienza. Lui è venuto solo perché ha ricevuto una convocazione come parte lesa e perché, in questo caso, si fa così: si perde eccezionalmente una giorno di scuola, si fa pazientemente anticamera per due ore, e poi si entra e si ascolta, senza pretendere niente, accettando con curiosità quello che viene.
Quando entra in aula, Renzo si siede nell’ultimo banco in fondo, passando rapidamente davanti a Gionny. Non sa niente di quello che accadrà e non si immagina che il giudice, dopo avergli chiesto nome e cognome, lo informa che Gionny ha chiesto di poter incontrare la sua vittima per chiedergli scusa e spiegarsi. E Gionny neanche sapeva che, proprio quel giorno, la sua vittima l’avrebbe rivista davvero.
Renzo non si aspetta che adesso Gionny lo ha tirato dentro la sua storia. Perché Renzo tu hai un posto in quella storia. Tu sei l’ultima vittima di un ragazzo che cerca di rubare quello che non potrà mai riavere indietro e che sta lottando con le unghie e con i denti per riemergere da un naufragio di sfiducia nel mondo che gli ha tolto tutto. E per farlo ha chiesto di provare a spiegare e chiedere scusa. E pensare che io, che seguo Gionny da due anni, e che sto facendo di tutto perché lui ce la faccia, mi ero presentato in udienza pensando di contestargli di non aver fatto abbastanza per capirci qualcosa di quei reati commessi, arrivando quasi a mettere in discussione il buon esito della sua misura penale.
E adesso invece la palla ce l’ha Renzo, al quale il giudice chiede se acconsente al percorso di mediazione penale con la persona offesa, chiesto da Gionny. Gli dice di pensarci, che non è obbligato, e che la sua decisione non danneggerà Gionny. E tutti ci giriamo a guardalo, questo ragazzo che non ha 16 anni appena compiuti, con quella mamma che lo osserva radiosa in volto, fiera di lui e di quello che risponderà, qualsiasi cosa sia. E lui calmo, senza rancori e senza vendette, col sorriso che rimane trattenuto, testa alta, ci pensa un attimo, ma sa cosa fare. Certo che accetta, perché è normale così, lo farebbero tutti: perché non dovrebbe? È l’unica scelta possibile...
E come avviene spesso nel nostro lavoro, la realtà irrompe sulla scena educativa, sparigliando le carte. Portando originalità, creatività e visioni nuove. Una realtà che, di per sé, non “educa”, non può farlo, ma offre nuove occasioni per “educare”. E che quando è roboante non può non essere vista e considerata, addirittura quasi riuscendo ad alterare la direzione di senso fino a quel momento intrapresa. Cambiando il clima, i significati, le visioni. E così facendo interroga i professionisti. Da un lato, su quanto ancora c’era di inesplorato, impensato, inimmaginato. E quindi di negato, intentato, non preso in considerazione. Dall’altro sulla meravigliosa debolezza dell’educare, che lavora “solo” sull’esistente e sul pensabile. E quindi su come il suo punto di forza sia anche il suo limite. A volte non capendo che, in quello stretto confine, c’è il mondo, ovvero il cambiamento.
Per fortuna, poi, sull’inesistente e l’impensabile ci pensa la realtà a rimettere le cose a posto! Avvertendoci così che, tutti i percorsi lineari in educazione, puzzano...
E adesso io, in quell’aula, sento che sto assistendo a qualcosa di straordinario: alla storia di questi due ragazzi, che potrebbero anche essere fratelli, che si ritrovano dopo due anni, e che nel frattempo non si sono persi, che hanno retto all’urto, diventando forse più maturi e più attaccati alla vita.
E quando il collegio giudicante esce dalla camera di consiglio e dispone la messa alla prova per il “delitto” commesso ai danni della persona offesa di nome Renzo io, come in un rallenty, che avanza fotogramma per fotogramma, girandomi verso Renzo e curando, con la coda dell’occhio, Gionny seduto davanti a me, vedo Renzo che lascia il suo posto. Lo vedo che avanza nel corridoio tra i banchi e il muro. Vedo Gionny che si alza e si gira calmo verso di lui. Vedo i due ragazzi che si cercano con lo sguardo. Vedo le mani di entrambi che si allungano. So che sono sudate. Vedo la loro stretta di mano, guardandosi negli occhi e abbozzando entrambi un sorriso dolce. Vedo il volto di Gionny che si gira verso di me e mi guarda. E col pensiero mi dice: sono stato bravo? E io, con la pelle d’oca, faccio di sì con la testa, sperando che sia tutto vero.
E che l’iPhone che intravedo nella tasca di Gionny non sia di Renzo...