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Seduto al tavolino del Bar Tabacchi di via Novara, guardando nel vuoto quasi non c’entrasse con i discorsi che stiamo facendo e come se pensasse ad alta voce, mi dice che è solo.
In realtà non lo dice a me. Lo dice e basta.

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Gli lascio quel pensiero terribile ma sincero, come fosse una confidenza troppo intima per poter essere anche solo sfiorata, e lo guardo in un silenzio che evita un improbabile “non è vero”.

So che non parla della possibilità di avere delle persone, anche poche, attorno a lui. Mi parla dello sguardo indagatore dell’altro, incontrollabile e che può solo invaderlo e metterlo a disagio, pronto a denunciare a tutti i suoi limiti e le sue identità contraddittorie, oltre che il suo passato indicibile. E che quindi deve essere tenuto alla larga, onde evitare di soccombere e naufragare definitivamente, vanificando gli enormi sforzi degli ultimi interminabili anni, spesi non tanto a cercare di costruire qualche fondamenta su cui basare un futuro possibile, ma a fare pulizia di tutte le macerie appartenenti al suo devastante passato.

Sono solo, vuol dire questo. Vuol dire non posso ancora, non sono ancora pronto. Ma vuol dire anche non ce la faccio più...
Lascio cadere il primo grido di dolore, in realtà quasi sussurrato, ma non mi sottraggo al secondo affondo: “...e poi noi parliamo solo quando io combino dei pasticci, e non parliamo mai delle cose buone che faccio”.
Gli dico che non è vero, che si dimentica i nostri caffè del lunedì mattina, in cui ci auguriamo buon inizio settimana e facciamo chiacchiere sui suoi progressi lavorativi.
Glielo dico ma non è così: ha ragione lui.
I ragazzi, con le loro parole, dicono sempre la verità. Solo che a volte è troppo grossa per essere raccolta. E allora sta all’adulto, poi, capirla, cercando di tradurre quello che dicono.


I ragazzi sanno che vengono visti e considerati quando producono allarme


Quando i ragazzi si mettono nei guai, o quando i temi da trattare sono pesanti, difficili, faticosi, gli adulti fanno quadrato, dedicano tempo, energia, pensiero al massimo delle loro possibilità. Diventano una task force micidiale, che coordina strategie d’intervento complesse, capaci di “attaccare” il problema facendo fronte comune, ma sapendo individuare anche singole azioni chirurgiche, focalizzate verso specifici obiettivi, così da accerchiare il “nemico”. Mettono in campo tutto questo sforzo organizzativo e progettuale perché avvertono l’importanza di essere in un passaggio cruciale, che va presidiato, compreso, approfondito come uno snodo articolato e complesso che, se sciolto, può permettere un salto di livello. Un salto di livello che può liberare dai lacci di un funzionamento che spesso appare come un circolo vizioso, contorto su se stesso e che impedisce un’apertura verso un cambiamento, avvertito come fondamentale per accedere a nuovi equilibri, orientati verso un maggiore benessere.

Seduto al Bar Tabacchi di via Novara, ecco che sento in quelle parole una lezione che non devo perdere, e che tocca un passaggio fondamentale quando si intraprendono le strade che portano verso l’acquisizione di nuove autonomie.

I ragazzi sanno che vengono visti e considerati quando producono allarme. Quelli che hanno attraversato i luoghi del “penale” hanno addirittura utilizzato inconsapevolmente questa arma per chiedere un aiuto estremo, un azzardo che rilanciasse la posta in gioco.

Ma anche i ragazzi allontanati dalle loro famiglie sanno che quando riemergono i fantasmi del passato, con le conseguenze legate alle incapacità di affrontare il vivere, gli adulti moltiplicano i loro sforzi e le loro attenzioni. I ragazzi sono anche maestri, di fronte alle difficoltà quotidiane, ad insinuare sempre elementi del passato che giustifichino un mal funzionamento, a volte con l’intento di sviare l’attenzione. E a noi adulti, spesso... piace cascarci!

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Questa dinamica, del tutto ovvia e necessaria, produce, di fatto, un sensibile aumento delle quotazione della merce chiamata “dipendenza”, suggerendo l’ipotesi che possa essere una prospettiva di vita possibile, capace di contenere tutte le emergenze e gli inciampi che possono accadere. O meglio che, a fronte di una difficoltà che richiede uno sforzo giudicato non sostenibile, si può appaltare ad altri la presa in carico del problema e, nei casi più seri, la risoluzione dello stesso.

Il ragazzo del Bar Tabacchi di via Novara mi stava dicendo questo: se noi ci siamo ogni volta che c’è un problema e non controbilanciamo il nostro investimento su di lui anche, e in egual misura, tutte le volte che le cose vanno bene, come farà ad abbandonare la dipendenza per l’autonomia?

Quell’autonomia che, così fatta, evoca come effetto principale proprio quella solitudine disperatamente temuta, non diventa una prospettiva allettante e seducente. Come farà, quindi, a non portarci solo problemi, se l’obiettivo è la presenza dell’altro che scongiuri l’essere solo nel mondo?

Quante volte, noi operatori, pensando paradossalmente di far leva su un falso orgoglio, incitiamo proprio a farcela da soli, quasi fosse un valore aggiunto, un riconoscimento prestigioso? Mentre invece dovremmo esaltare l’importanza proprio del non essere soli nell’affrontare un problema, ma del poter disporre di una gamma articolata e, più possibile, eterogenea di aiuti utilizzabili a seconda del caso e del momento.


La dipendenza e l’autonomia non sono, tra loro, valori contrapposti


Il passaggio, naturalmente, non è automatico né, come spesso gli operatori credono, letterale, meccanico, prodotto di una azione. Non è qualcosa che si possa indurre o provocare con un interruttore, un automatismo  che funziona così e basta.

La dipendenza e l’autonomia non sono, tra loro, valori contrapposti. Rischiano invece di essere delle semplificazioni che non rendono la complessità del processo al quale, ambedue, appartengono. La dipendenza è un’esperienza fondamentale che facciamo da piccoli, quando la nostra vita è sorretta da poche e solidissime basi di appoggio: principalmente un paio di colonne portanti, assolute e quasi insostituibili che, con l’aggiunta di qualche altro “tirante”, non sempre indispensabile ma che rende la struttura più stabile ed elastica, permette di resistere agli urti della vita, in una fase di estrema fragilità e quasi totale mancanza di competenze e conoscenze, necessarie per trovare soluzioni ai problemi (o, più ancora, per capire che un problema è un problema!).

L’autonomia è la possibilità di diventare i registi della propria scena di vita, moltiplicando e architettando il numero di elementi capaci di sostenere la struttura, così che ogni singolo elemento diventi meno fondamentale e magari, al tempo stesso, cercando anche di trovarne sempre di diversi così da reggere a sollecitazioni sempre nuove e inaspettate.

L’autonomia è un network di singole dipendenze, meno assolute e onnipotenti di quando ce n’erano solo un paio, e più interscambiabili tra loro. Un catalogo di offerte tra loro in parte alternative e complementari, in un equilibrio mai definitivo ma sempre in evoluzione. L’autonomia, come punto di arrivo, non esiste. È più una tensione, una ricerca continua, soggetta a cadute e riprese, sempre in movimento e mai definita per sempre. È la dipendenza che esplode, che diventa adulta, prendendone il principio attivo e riducendone al minimo gli effetti collaterali, i rischi.

Uno di questi, forse il maggiore sperimentato da piccoli, è che si gioca su numeri troppo bassi. Ci vuole un niente che venga giù tutto. Se una colonna scricchiola, tutto improvvisamente potrebbe crollare. E questo i ragazzi allontanati dalle loro famiglie lo sanno bene: è esattamente quello che hanno sperimentato. Ecco perché, man mano che cresciamo, iniziamo ad immaginare qualcosa di alternativo che possa sorreggere l’intero impianto: pilastri, travi, archi... così da fare a meno di quel paio di colonne portanti che avevano il compito di reggere tutto quanto. Cerchiamo questi sostegni fuori nel mondo, capendo che forse, quelle colonne, non resisteranno in eterno e un giorno potrebbero scricchiolare o venire meno.

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Ora, ammesso che sia così, tutto questo funziona quando... funziona! Cioè quando i passaggi si susseguono seguendo una linea evolutiva, senza troppi scossoni o passaggi a vuoto improvvisi, sostenuti dalla competenza necessaria, propria o di altri, per far fronte agli imprevisti.
Ma per il ragazzo del Bar Tabacchi di via Novara non è così.

Lui da piccolo si è fidato, come la natura lo obbligava a fare, di quella dipendenza che tutto era tranne che solida. Quando, quasi subito, una colonna, barcollando... sì come un ubriaco, è venuta meno, si è aggrappato a quella rimasta che, poco dopo, ha visto bene di andarsene, mettendo al suo posto un trabattello scalchignato, e forse maledetto, che proprio non gli ha permesso di capire quanto fosse utile e bella la dipendenza. Gli ha mostrato invece, in modo netto e inequivocabile, quanto potesse essere malvagia, pericolosa, violenta. In altre parole, gli ha detto a chiare lettere: “stanne alla larga!”

E allora come fargli capire che adesso deve passare ad un sistema che replica e riproduce su larga scala quel meraviglioso strumento di crescita, addirittura moltiplicandolo ma rendendolo meno unico e più flessibile?!

Quando un servizio o un operatore si occupa di percorsi di acquisizione di autonomie non si può eludere che il vero problema sia, innanzi tutto, cercare di bonificare le esperienze di dipendenza. A volte provando a ripercorrerle recuperando il buono che c’è stato, a volte rileggendone e comprendendone i significati. Altre volte ancora andando a riconoscere i limiti umani dei caregiver, forse addirittura nominando la sfortuna o l’incompetenza come dato di fatto.
Ma il più delle volte, organizzando rapidamente un “corso accelerato” in dipendenza.


L’occasione di fornire loro una dipendenza “adulta”,
dove il non risolvere genera ricerca di nuove strategie, apertura al fuori


Quando gli operatori che si occupano di autonomia accolgono un nuovo ospite nel loro servizio sanno che, dietro l’angolo, si nascondono movimenti regressivi pronti ad esplodere. Quello che i ragazzi sembrava avessero già imparato a fare, improvvisamente, è come se venisse perso, e l’indice di funzionamento rapidamente crolla.

Certo, questo dipende anche dal fatto che vengono tolti loro una serie di ausili che consentivano una certa efficacia di movimento e talvolta – diciamolo pure – producevano una “illusione ottica” a cui gli operatori amavano credere. Ma spesso è come se i ragazzi capissero che si stanno giocando ormai le ultime occasioni per vivere intense e nutrienti dipendenze. E che le piccole autonomie materiali raggiunte erano solo una fregatura: avevano rapidamente fornito una patente “tarocca”, nascondendo che il vero problema non riguarda la performance o le competenze, ma gli affetti e la fiducia. L’importante non è essere capaci, ma essere visti, e, forse più ancora, essere. E quindi, ora o mai più: se qualcosa è rimasto di inevaso o inesplorato, è il caso di farlo al più presto.

Questo non deve spaventare né essere letto come un passo indietro. Ma come una regressione funzionale, una rincorsa che permette di acquisire il coraggio per saltare. Come tornare di corsa indietro per un ultimo saluto malinconico ai luoghi idealizzati di una sana dipendenza che non c’è mai stata e non ci sarà mai.

All’operatore spetta allora il compito primario di sfruttare l’occasione, come sempre succede in educazione. Il movimento non va contrastato ma, alleandosi con la regressione, va trasformato in un percorso di apprendimento, ricco di significati, molto spesso da passare attraverso parole adulte, perché no, difficili, sostenute da gesti concreti, azioni coerenti. Come per colmare lo scarto che si può creare tra la ricerca di un’oasi di dipendenza cronica e la fuga verso l’autonomia performante.

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Lo spostamento sui risultati concreti raggiunti deve essere utilizzato, infatti, non, come indice per misurare l’autonomia, ma come dato di realtà: prendere atto dei successi valorizzandoli e utilizzandoli come trampolino di lancio verso gli inevitabili apprendimenti ancora da acquisire. Quando i ragazzi esibiscono le loro competenze “misurabili”, spesso ci parlano delle loro capacità di fare da soli. Questo di per sé non è male, ma non necessariamente ha a che fare con l’autonomia, che invece si occupa di come creare una rete, la più vasta possibile, di “altri” nel mondo, autorizzati ad intervenire nella nostra vita, a volte anche non richiesti. Autonomia, in questo caso, è sinonimo di riconoscimento del limite, cioè di “sane” incapacità, di legittimi bisogni. E questo la rende subito infida agli occhi dei “nostri” ragazzi, così duramente provati dall’argomento, che rimanda immediatamente ai luoghi della scarsa autostima.

I “nostri” ragazzi hanno poi una naturale ambivalenza nei confronti della dipendenza, da un lato diffidando spesso del bollino di prodotto di qualità che gli educatori cercano di affibbiargli, ma dall’altro restando affascinati dall’illusione che invece possa consentire loro di farcela più rapidamente e a ”basso prezzo”. A noi il compito, anche in questo caso, di sintonizzarci con questa predisposizione, senza troppo opporci,  ma utilizzandola come arma sulla quale fare leva quando la regressione rischia di cronicizzarsi e trasformarsi in patologia.

Ecco allora l’occasione di fornire loro una dipendenza “adulta”, che archivi i valori fondanti della dipendenza dei “piccoli”, quali il sostituirsi all’altro, il risolvere il problema o l’anticipare il bisogno, per passare ad una dipendenza da “grandi”, snella, incisiva, diretta.

Una dipendenza dove il non risolvere genera ricerca di nuove strategie, apertura al fuori, messa a frutto di quanto già si possiede, magari senza saperlo.
Il non anticipare permette di vivere l'esperienza della caduta come fronteggiamento dell'emergenza, come contatto col limite, come gestione della frustrazione, anche dell’operatore che non sa non anticipare.

Il non sostituirsi permette di restituire protagonismo, di entrare in contatto con la paura e la solitudine. Non quella di chi non ha nessuno ma quella di chi, in quel preciso attimo, deve stare da solo con se stesso e così trasformare la risoluzione del problema in entusiasmo, in possibilità di farcela, in fiducia verso se stesso.
E la dipendenza dall’altro è data dal sapere che il suo sguardo è sempre presente, accompagna, vigila, fa il “tifo”.


Per occuparsi di autonomia bisogna avere un ascolto
particolarmente  sensibile verso le richieste di dipendenza


Una dipendenza che parla di reciprocità, dove si lascia all'altro la possibilità di diventare soggetto che si affaccia al mondo delle decisioni, delle scelte, delle responsabilità.

Che non vive gli affetti come presenza, talvolta invadente, a volte addirittura simbiotica, ma come pensiero, come esserci perché si è nella mente dell'altro, non perché l'altro fa per noi.

Che interpreta la presenza non come garanzia assoluta di intervento nel presente, ma come appuntamento in un futuro, dove l’altro è atteso sempre un po' più avanti rispetto al risultato che lui stesso pensava di poter raggiungere.

Una dipendenza che sa fare esperienza di un affetto che si realizza nella crescita dell'altro, nel suo saper cambiare, trasformarsi, farcela. E che sa che il suo punto d’arrivo più alto è il non aver bisogno di esserci più, non perché l’altro viene abbandonato, o perché siano scaduti i termini del progetto, ma perché è arrivato il momento di navigare in mare aperto, avendo ormai appreso tutto quello che c’era da apprendere, tanto l’altro, con il suo sguardo infinito e affettuoso, ci accompagnerà per sempre...

Una dipendenza, però, che si nutra anche di gesti concreti, quotidiani: dalla cura dei dettagli, all’essere presenza silenziosa, alla capacità di spiegare i significati. Ma anche lo stupore di una carezza inaspettata, il dare agli affetti il loro nome senza ambiguità o paure, l’esperienza di confini di ruolo e di identità che, nel definire la diversità, permette di avvicinarsi senza confondersi. L’esserci anche dopo l’ennesimo fallimento senza sconti ma senza fughe. O il non esserci, così da creare un vuoto che induca uno scatto di crescita, un’esplorazione verso capacità impensate. Il non considerare l’insuccesso dell’altro come il proprio, e quindi da allontanare per non essere visto, ma come una domanda di senso, che impone il doversi fermare per capire se e come ripartire.

Una dipendenza così fatta, ha il valore poi di evocare un mondo adulto possibile, affascinante, nuovo. Un mondo adulto che, se capace di risolvere le proprie dipendenze, può far spiccare il volo verso un’autonomia che è la ricerca di luoghi di una propria, unica, autenticità.

Al di là delle ricette che, per fortuna, in educazione non funzionano mai due volte di fila, quello che si vorrebbe sottolineare è che per occuparsi di autonomia bisogna avere un ascolto particolarmente  sensibile verso le richieste di dipendenza. Sapendo che ormai siamo ai “tempi supplementari” per fare buone esperienza di dipendenza, non bisogna temere di tenere in attesa momentaneamente gli obiettivi performanti dell’autonomia da considerare come qualcosa di parallelo, per immergersi nuovamente nei luoghi affettivi della dipendenza. La scommessa punta a recuperare e curare un bisogno di attenzione e di calore, ricevuto talvolta però sotto forma di cibo andato a male che, passando in qualche modo anche nutrimento “affettivo”, introduceva il veleno della paura, della disattenzione, del pericolo, della sfiducia.

A noi provare, con grande cautela, a trattare il bisogno e la propensione dei ragazzi a ricevere una sana dipendenza per immaginare che poi  – chi lo sa! – una volta diventati grandi, sarà possibile riprodurla e ridarla se richiesta...in una vita futura... Al tempo stesso non avendo timore di sfiorare sabbie mobili pericolose che potrebbero confondere, facendo leva invece sul terreno solido dell’autorevolezza e della saggezza, di chi sa quanto autonomia e dipendenza siano valori interconnessi tra loro e non contrapposti.

Il ragazzo del Bar Tabacchi di via Novara, forse mi stava dicendo che, se non si dedica ancora un po' di tempo al consolidare la funzione costruttiva della dipendenza, lui rimarrà  solo, perché non potrà replicare un modello che ancora non ha capito e che non gli appartiene. E che lui vede innescarsi solo quando le cose non vanno bene, senza così riuscire ad immaginare cosa mai succederà quando le cose dovessero invece incominciare ad andar bene.

O meglio lo sa: resterà solo e privo di quegli aiuti che lo faciliterebbero nel raggiungere le sue autonomie.
Esattamente com’è successo quando era piccolo...


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