Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo il primo capitolo de "Un angelo senza ali" di Alberto Sala (AltroMondo Editore).
Il 5 maggio 2008 mi trascinavo a Milano tra un ufficio e l’altro per sistemare alcune questioni burocratiche legate alla nostra Associazione a favore dei bambini, nata solamente nel giugno dell’anno precedente.
Non sono mai stato molto portato per queste faccende e, devo dire, quel giorno ero abbastanza spazientito non solo perché per tutta la mattina correvo da uno sportello all’altro, ma anche perché il giorno prima era il mio compleanno e dovetti lavorare fino a sera, quindi tornai a casa molto tardi. Normalmente non mi concedo niente di particolare, ma pensavo a quella giornata come a un frammento di quiete e momento di festa con la mia famiglia.
La giornata ormai era rovinata, ma almeno sarebbe arrivata sera e sarei stato con i miei cari.
Dopo aver parcheggiato per arrivare al palazzo che ospita l’Agenzia delle Entrate dovetti passare attraverso il Parco di Porta Venezia, una piccola oasi di pace nel frettoloso caos cittadino. La giornata era stupenda, tipicamente primaverile. Il delicato profumo degli alberi in fiore era accarezzato da un piacevolissimo venticello tiepido, dando un senso di pace e di quiete.
Mi fermai per pochi minuti seduto su una panchina e osservai divertito i passanti, alcuni così buffamente affaccendati da sembrare piccoli automi, altri persi in mille pensieri e preoccupazioni di vario genere e altri ancora semplicemente capaci di godersi quella giornata di sole regalandosi un momento di pace.
La brezza mi deliziava del fascino primaverile quando all’improvviso sentii non molto lontano il suono soave e perfetto di un violino, uno strumento musicale che ho sempre guardato con un misto di vorrei ma non posso e ossequioso timore.
Molti anni prima ero un giovane studente all’Accademia di Belle Arti di Firenze con la speranza di diventare un giorno un bravo pittore e a quell’epoca andavo in centro con il mio caro amico Davide per assistere all’esibizione di bravissimi artisti di strada.
Per questo motivo, sull’onda dei ricordi, quel suono cullato dal vento rapì la mia attenzione.
Feci il giro del parco quasi per intero, a passo svelto, seguendo il richiamo di quelle dolci vibrazioni come se fossero un invisibile sentiero segnato dal destino. In una piccola porzione di prato fiorito vidi un biondissimo ragazzino dall’apparente età di dodici o tredici anni. Aveva tra le mani un violino stupendo di un sericeo color azzurro, cangiante, dal quale uscivano note incantevoli.
Rimasi praticamente a bocca aperta di fronte a una simile grazia. Intorno a lui c’era un folto gruppetto di persone incuriosite e attratte quanto me; invece al suo fianco, ma seduto in disparte, c’era un senzatetto con i caratteristici vestiti logori e piuttosto lerci, barba incolta e capelli arruffati dallo sporco sotto i quali, seppur a fatica, si potevano scorgere dei lineamenti docili e giovanili.
Notai che le persone presenti adagiavano nella fodera del violino accuratamente posata sull’erba copiose monete e banconote. Eppure quel ragazzino non sembrava affatto bisognoso o trascurato, tutt’altro.
Anzi, trasmetteva l’idea di una persona molto raffinata e curata. Finito di suonare, quando ormai la piccola folla stava tornando ai propri impegni quotidiani, io rimasi lì come rapito da quella gradevole sorpresa.
Mi lasciai cadere su un’anonima panchina di fronte a loro e vidi questo cucciolo d’uomo dalle fattezze poco più che di bambino offrire al suo amico quanto ricavato dall’improvvisato spettacolo realizzato per il suo compagno di strada, accompagnando questo generoso gesto con un abbraccio colmo di affetto. Una scena non da poco e che non si vede tutti i giorni, anzi a dire il vero quasi mai.
Poi vennero verso di me e si sedettero sulla mia stessa panchina. Io ero confuso da tutto questo come scosso da un’energica sferzata d’improvvisa umanità.
Il ragazzino aveva un viso angelico e uno sguardo apparentemente sereno, dal quale traspariva però un velo di tristezza.
Mi scappò un banalissimo e abbastanza patetico sei davvero bravo. Sorrise e con un dolcissimo sguardo, guardandomi diretto negli occhi, lui mi rispose: «Grazie.» Aggiungendo subito dopo: «Questo mio amico è ben più bravo di me, perché sa gioire ogni giorno di quel poco che ha.»
A quel punto mi aveva umanamente travolto e allo stesso tempo conquistato. Come avrei mai potuto aspettarmi da un ragazzo una simile risposta? Normalmente a quell’età sono strafelici dei complimenti e delle attenzioni che ricevono per quello che riescono a fare e sono ben lontani dallo spartire con altri i veri o presunti successi.
Lui, invece, si era messo in secondo piano portando alla mia attenzione il barbone come esempio. Oggigiorno é difficile persino trovare qualche adulto che abbia un minimo di attenzione verso il prossimo tanto più se è ai margini della società. Figuriamoci un ragazzino!
Cominciammo a parlare come se ci conoscessimo da sempre chiedendoci poi le solite cose, chi eravamo, dove andavamo e che cosa avremmo voluto fare.
Ci volle ben poco per capire che il giorno prima era stato il compleanno di entrambi. E questo fu l’inizio di un’amicizia unica, inattesa, profonda, vera e illuminante.
Rimanemmo su quella panchina per almeno un paio d’ore dove il tempo sembrava si fosse fermato in quieto ascolto di un incontro speciale. Francamente non so cosa abbia scatenato e prodotto tutto questo; qualcuno potrebbe dire il fato, la casualità. Per me fu semplicemente un dono di Dio.
Ci divideva l’età ma soprattutto un abisso a livello culturale. E io ero l’ignorante, non lui.
Non mi ha mai fatto pesare la sua superiorità intellettuale, anche se a quel tempo ancora non potevo nemmeno immaginare chi avevo la fortuna di avere di fronte, con quale mente raffinata ed erudita stavo colloquiando, in quale profondità d’animo mi stavo lasciando trascinare.
Scoprii così che aveva ogni tanto l’abitudine di suonare nel parco con il solo intento di raccogliere qualche spicciolo per il suo amico barbone, di origine francese.
Non ricordo di preciso come si chiamasse, credo Michel.
Quel che mi incuriosiva era il fatto che per lui era assolutamente normale condividere con il suo amico Michel il proprio tempo, con una persona che per tanti è inutile e persino un peso, magari da eliminare. E non lo faceva in modo forzato, non tanto perché giusto ma perché ovvio.
«È ovvio perché Michel è una delle mie parti mancanti.» Diceva. Una delle parti che poi scoprii essere anch’io, quanto lui per me. Abituato com’ero alla normalità di molti adolescenti e adulti, questo incontro si rivelò davvero straordinario.
Mi disse di avere quattordici anni e di essere rientrato pochi mesi prima da Londra .
E su quell’anonima panchina, vicino alla quale sarò passato decine e decine di volte, cominciò la nostra amicizia, la nostra straordinaria avventura.
Notai al polso destro un polsino in spugna non eccessivamente vistoso con i colori dell’arcobaleno, che solo in seguito avrei compreso quale significato avesse per lui.
Samuel fu un dono unico e stupendo che mi portò a scoprire un figlio inatteso.
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