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20160919 sms

Squilla il telefono.
Sempre quel numero.
Cosa fare?
Said ha resistito sei mesi. Adesso sente che non ce la fa più.

Come fa a non rispondere per l’ennesima volta? Lo cercano sempre...
Ma se risponde non può dire di no.
Questa volta non ci riesce, sa chi lo sta chiamando e risponde.
Dopo i primi rapidi, scontati convenevoli, puntuale, arriva la richiesta. Un ordine travestito da supplica. La falsa promessa di un ultimo regalo, e poi basta.
Said cerca di resistere. Dice che non è possibile, che non può più farlo. Che lui adesso ha un lavoro regolare, che gli piace, che vuole andare avanti così. Non può permettersi di perderlo.
Said non crede alle sue orecchie. Questa volta la richiesta va oltre. Lui aveva già messo in conto, alla peggio, di cavarsela con poco, e accettare il minimo indispensabile. E invece gli viene chiesto di fare di più. Giusto farlo ancora per due o tre volte, e poi riprendere la sua vita regolare.
Pensava gli chiedesse solo dei soldi. Invece, gli ha dato il suo permesso.
Rimane senza fiato. E ora non sa più davvero cosa pensare.

E lui, mentre ascolta queste parole al telefono, si ricorda bene che era anche bravo a farlo.
Nessuna avrebbe potuto immaginarlo. Nessuno lo sa, neanche adesso. È un segreto.

Lui, bravo ragazzo, anni di comunità impeccabili, il diploma al Pia Marta, il lavoro.
Timido, gentile, quasi impacciato. Un ragazzo d’oro. Come dicono gli operatori, da portarselo a casa.
Ma Said è così. È davvero così. Non farebbe male ad una mosca.


lui che sa che se lo beccano crolla tutto. 
Morirebbe di vergogna, non potrebbe più 
guardare negli occhi tutti quelli che lo conoscono


E io ancora fatico ad immaginarmelo di notte nei boschi del Parco del Ticino. A guardarsi le spalle e aspettare il momento giusto per concludere l’affare.
E lui che sa che se lo beccano crolla tutto. Morirebbe di vergogna, non potrebbe più guardare negli occhi tutti quelli che lo conoscono. Non potrebbe più guardarmi negli occhi.
Io non potrei riconoscere quel ragazzino forse dislessico per il qualo mi ero preso l’impegno di preparare all’esame di terza media, con la richiesta di farlo studiare al massimo per un’ora (“di più non riesce”) e poi “scrivila tu la tesina, tanto all’esame non serve”...

Tempo tre pomeriggi ed era inchiodato alla scrivania a studiare la seconda guerra mondiale, i campi di concentramento, la storia di Schindler, la ritirata di Russia e quella foto in bianco e nero sul libro di testo che, chi lo sa!, magari quello era mio padre, che l’ha fatta davvero lui la ritirata di Russia chiedendo ospitalità ai contadini che trovava lungo i gelidi sentieri innevati che gli congelavano i piedi, senza neanche capire una parola di quello che dicevano, ma ricevendo una zuppa calda da quelli che dovevano essere i “nemici”, un aiuto impossibile che spezza il cuore e salva una vita. Sì, quella frase che ti era rimasta impressa: chi salva una vita salva l'umanità intera... Ma cosa vuol dire Luca?

E invece, solo qualche anno dopo, nei boschi del Parco del Ticino, Said la vita la rischiava ogni notte. E quante volte ha rischiato che lo prendessero. Poteva perdere tutto: la libertà, il lavoro, la stima degli altri, il permesso di soggiorno. Non la famiglia, però. Quella non l’avrebbe persa. Come non l’hanno persa tutti i suoi parenti in Italia, tutti spacciatori, molti di loro a passare le loro interminabili giornate in galera.
E anche lui ci è andato vicino quella notte quando all’improvviso ha sentito urlare, fuggi fuggi generale e “si salvi chi può”, con le auto della polizia a circondare la zona.

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E allora salta su in macchina, a tutta velocità per il bosco. In mezzo ai sentieri, dove quasi la macchina non ci passa. E loro dietro, con gli abbaglianti che sembrano più vicini di quello che sono. Lui, bocciato tre volte all’esame della patente, che cerca di seminare i piloti esperti della polizia, facendo slalom tra gli alberi, guidando alla cieca e rischiando di finire dentro un fosso. Senza sapere dove scappare, nel buio che tutto confonde e non si capisce più dove andare. Finché non arriva il fiume, nero, inaspettato, terribile, a stabilire che la corsa è finita. Pensi: “questa volta sono fottuto”! E con la forza della disperazione, senza rifletterci un attimo, ti tuffi nel Ticino. Di notte, d’inverno, al freddo. Quel Ticino che avevi conosciuto 5 anni prima, per il corso di canoa che ti avevo regalato per il tuo diploma di terza media, conquistato con i denti e frutto di interminabili ore di studio fatte assieme. Il regalo più bello mai ricevuto, lo avevi definito. Quel fiume amico, chissà perché, ti avrebbe fatto un altro regalo.

E i poliziotti a guardati, impotenti, rabbiosi, tu che nuoti disperatamente verso l’altra sponda, con la corrente che ti trascina via, i rami degli alberi che ti graffiano la faccia e il nero dell’acqua pronto ad inghiottirti appena il fiato finisce. E invece ci arrivi dall’altra parte, e non sai neanche come. Ed esci dall’acqua, ti giri un attimo e li guardi, quasi li fissi negli occhi per essere sicuro che siano rimasti di là, che abbiamo esitato, e ancora hai la forza di scappare via, di corsa, come un bambino che non sa risparmiare il fiato. E salvarti.

No, se non me lo avessi raccontato tu, non ci avrei mai creduto.
Lo sai solo tu Luca. Io so che non è vero che lo so solo io, Said. Ma dici questo perché sai che solo io posso ancora vederti con gli occhi di sempre, senza che i due Said si confondano. Senza che lo spacciatore notturno infami il ragazzino solare, e gli faccia perdere la purezza del suo essere una creatura che lotta contro l’impossibile per farcela.


Neanche si immaginavano loro che razza di esami impossibili
avevi già superato e quanti ancora ne avresti affrontati di lì a poco


Quel ragazzino che non può stare concentrato per più di un’ora ma, dopo un pomeriggio intero di studio e una cena divorata velocemente, si rituffa a sentire le paternali di un adulto che gli spiega che ogni vita ha un valore assoluto, infinito e che, anche solo cercare di salvarne una, vuol dire riconoscere questo valore e non essere disposto a barattarlo con nessuna ingiustizia al mondo e credere che ogni vita rappresenti la Vita, cioè l’umanità intera.

E forse non hai mai capito che io allora stavo cercando di salvare te, da quell’odiosa profezia che ti voleva incapace di concentrarti, inadatto a studiare, e non in grado di capire. Come ti avrebbe poi confermato quella professoressa con gli occhiali firmati e il giro di perle durante l’esame, quando le hai chiesto di ripeterti una domanda che non avevi capito: “no, non importa, lascia perdere...”, detto con quel sorriso finto, da quartiere per bene che fa venire i nervi solo a vederlo.

Ma quale esame di terza media da superare! Neanche si immaginavano loro che razza di esami impossibili avevi già superato e quanti ancora ne avresti affrontati di lì a poco.
E io che avrei voluto alzarmi e dirgliene quattro a quella vecchia cariatide, con quel tono supponente che neanche sapeva guardarti negli occhi e cogliere la tenerezza e l’imbarazzo dei tuoi occhi, massacrati da quello sguardo giudicante e infastidito di chi pensa che sta solo perdendo tempo con uno che non può capire.

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Neanche la promozione era stata in grado di ripagarti da quell’umiliazione, neanche il sapere che eri il primo della famiglia ad avercela fatta. Una famiglia, però, che ti chiedeva di più che non un semplice, inutile diploma. Un di più che non si può neanche pensare. Ed io, che nei lunghi discorsi sulla vita, sul come fare, sui rischi che si devono correre, ti ho sempre un po' imbrogliato, sapendo bene che a volte non è vero, non si può dire di no. Non si può dire di no alla famiglia, al suo richiamo, ai suoi legami indissolubili. E a quella terribile litania, che supplica sempre più soldi, senza sapere come si vive qua, che fa il paragone con quanto gli altri spediscono ogni mese senza domandarsi mai come fanno. Perché non vogliono sapere. Perché fanno finta di non sapere. Perché forse sarebbe troppo doloroso sapere, e la colpa risulterebbe insopportabile.

E la vita “onesta” non basta. Non può bastare a mantenere se stessi, gli affitti da pagare, i fratelli minorenni che arrivano uno in fila all’altro, i propri sogni di ragazzo che cresce. E come fanno a starci anche i soldi da mandare in Marocco, neanche fossero una dose che ne annuncia subito un’altra, un debito infinito che mai potrà essere saldato.

Ma dopo lo scampato pericolo, ancora fradicio nel freddo del Bosco del Ticino, col cellulare in bocca perché non si bagnasse, gettando via il giaccone così zuppo da essere solo d’intralcio, Said dice basta. Nel frattempo aveva già perso il lavoro diurno per poter stare dietro a quello notturno. Anzi, si era licenziato perché il “secondo” lavoro gli impediva di essere concentrato, di arrivare puntuale, di far bene il suo mestiere. E lui non voleva deludere il suo capo che si era appassionato subito a questo ragazzino che sorride sempre con gli occhi, che vuole imparare un mestiere, nonostante i suoi 17 anni e un diploma strappato per il rotto della cuffia. Un ragazzino che quando gli chiedi cosa sta succedendo abbassa la testa, e diventa rosso.

Ma quella notte, di nuovo, cambia tutto. 


e via a ricominciare tutto da capo, come prima.
Sapendo però che adesso arriva la battaglia più dura.
Quel no ai genitori che non si può dire


Non può più rischiare così la sua vita, il suo futuro e i suoi documenti, unico della famiglia ad averli, chiave d’accesso preziosa per regolarizzare tutti quanti. Non reggerebbe alla vergogna, lui, bravo ragazzo dalla faccia pulita. Con il terrore di scrivere una lettera alla mamma da una cella di un carcere italiano, e raccontarle cosa è successo. Raccontarle che lo avevano messo dentro per spaccio. Sai che delusione? Lui, il maggiore dei fratelli, quello che ha studiato, che parla bene italiano, che lavora da anni e che un giorno tornerà in Marocco pieno di soldi e li sistemerà tutti. Come potrebbe mai dirglielo alla mamma, che è finito in galera perché vendeva droga nei boschi del Ticino?!

E allora decide di rifarsi vivo con me, di chiedere aiuto per trovare un lavoro vero, di quelli che si va tutti i giorni dalla mattina alla sera e si guadagna un quinto di quello notturno. Perché la notte si dorme, non si sta in un bosco, non ci si guarda alle spalle, non si scappa dalla polizia. E di giorno si va in giro a testa alta, senza la paura di incrociare uno sguardo amico e sentirsi costretti ad abbassare gli occhi.
E al diavolo la famiglia, con le sue richieste, i suoi ricatti. Basta, adesso davvero basta.

E così Said trova lavoro. A trenta chilometri da Milano. Si alza alle sei della mattina e rientra in Pensionato alle otto di sera, aspettando il turno di cucina delle 10 perché prima c’è troppa gente ai fornelli. Ma tutto questo gli viene facile, perché è bravo, si fa voler bene, impara, è educato. Si adatta a far tutto, non ha pretese non si crede un padreterno. Lava le macchine dei signori, i mariti delle insegnanti del centro che si stufano se uno non capisce, di quelli che lo chiamano Marocco e gli allungano qualche centesimo di mancia come elemosina alla quale bisogna dire grazie.
Ma lui non si offende, sa di essere fortunato. Lui sa la differenza tra il bene e il male. Gliel’hanno insegnato la mamma e il papà, e il mondo contadino dov'è cresciuto e che gli fa ancora brillare gli occhi solo a ricordarlo. Glielo leggi in faccia che lui sa cosa è giusto e cosa no.

E via a ricominciare tutto da capo, come prima. Sapendo però che adesso arriva la battaglia più dura. Quel no ai genitori che non si può dire. Quel tradimento che disonora, che fa perder il ruolo di figlio primogenito, che rompe il patto con la famiglia e il motivo del suo viaggio in Italia. Quel viaggio che a 12 anni ha scelto lui di fare per cercare fortuna, senza neanche capire che lui non ha scelto un bel niente, ma a quell’eta sono altri che dovrebbero scegliere per lui. E, appunto, l’hanno fatto, imbrogliandolo due volte, decidendo di fargli credere che l’avesse scelto lui.

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Sa Said che sarà durissima. Lo sa ma ci tenta. Cerca di salvare la sua vita. Dovrà andare contro il mondo intero per farcela. Ma salvare una vita è come salvare il mondo intero.
Dice di no, litiga, si becca tutte le offese possibili. Le colpe per le malattie non curate, i vestiti non comprati, la dispensa sempre vuota, i trattori rotti, le mucche che non hanno da mangiare e non fanno più latte. Alla fine capisce che l’unica strada è tagliare i ponti con tutto. Quasi un peccato mortale che nessuno potrà mai perdonare.
Non risponde più al telefono. Cercano di chiamarlo tutti: genitori, fratelli, cugini, amici. Ma lui resiste e non risponde più quando vede il numero noto dei famigliari.
Resiste fin che può. Fino a quella telefonata che non poteva immaginare.

Risponde alla mamma. Sa che è lei. Le manca, lei si dispera, lui piange. Non sa cosa dirle, come dirglielo.
Ma, dopo i primi rapidi, scontati convenevoli, puntuale, arriva la richiesta. Un ordine travestito da supplica. Un ultimo regalo, poi basta. La mamma gli chiede dei soldi. Non ce la fanno più, non hanno da mangiare e da vestirsi.
Said cerca di resistere. Dice che non è possibile, che non può più farlo. Che lui adesso ha un lavoro regolare, che gli piace, vuole andare avanti così. Non può permettersi di perderlo.

Said non crede alle sue orecchie. Questa volta la richiesta va oltre. Lui aveva già messo in conto, alla peggio, di cavarsela con poco, e accettare il minimo possibile. E invece gli viene chiesto di fare di più. È la mamma che glielo chiede: “Said, non potresti ritornare a spacciare ancora? Giusto rimettersi nel giro per farlo ancora per due o tre volte, guadagnare rapidamente un po' di soldi e poi riprendere la vita regolare”.

Pensava gli chiedesse dei soldi, invece gli ha chiesto di tornare a spacciare. Gli ha dato il suo permesso.
Disperato, la testa fra le mani per nascondere le lacrime mi dice: capisci, Luca? Mia mamma me lo ha chiesto. Ha sempre saputo da dove venivano i soldi e non mi ha mai detto niente!
Io come faccio a dirle di no adesso?!


però non ho parole.
Nel nostro lavoro, le migliori parole sono quelle
che rinunciamo a dire, non riuscendo a trovarle
perché non esistono


Lo accarezzo. È sera. Siamo seduti sul muretto di fronte al Lidl di via Giambellino.
Attorno a noi, nel parchetto tra il parcheggio e la strada, ragazzi, adulti, stranieri che non so neanche se hanno una casa. Molti con la birra in mano. Sdraiati su una panchina, seduti per terra. Alcuni litigano, altri fumano. Li guardo e mi dico: no, lui no.

Però non ho parole. Nel nostro lavoro, le migliori parole sono quelle che rinunciamo a dire, non riuscendo a trovarle perché non esistono.
Lo accarezzo di nuovo.
E penso a pochi giorni prima quando, dopo l’ennesimo attentato dove non c’entrano i musulmani, gli avevo inviato la Sura V del Corano, quella che dice che chiunque abbia ucciso un uomo è come se avesse ucciso l’umanità intera, e chi ne abbia salvato uno...

“Ti ricordi”? Ti avevo scritto via sms.
“Sì, lo abbiamo studiato per l’esame di terza media”.
...12 anni prima... mi viene la pelle d’oca, e mi commuovo.
“E io che neanche sapevo che ti stavo spiegando una Sura del Corano...”
“Neanche io lo sapevo: pensavo lo avesse detto Primo Levi”.

Adesso invece mi sembra che è crollato il mondo, anche l’ultimo argine è venuto giù.
Gli dico solo che dobbiamo pensare ad una soluzione. Lui sa bene che io non smetto mai di pensare che a questo mondo ci sono le soluzioni, non i problemi. Quasi mi sorride, come mi prendesse in giro, guardandomi negli occhi e riconoscendo la mia quasi ridicola caparbietà, che però lo rassicura, come fosse un punto fermo, qualsiasi cosa succeda. Una certezza che fa casa, non importa se assurda.
Ci salutiamo, gli auguro la buona notte.

Arrivo a casa e non riesco a smettere di pensare a tutto quanto. Non smetto di pensare a lui, che da solo se ne torna in pensionato, senza una prospettiva, nemmeno illusoria di un futuro possibile. Senza una mamma che non lo autorizzi a rischiare la sua vita e a fare il delinquente. Una mamma che io non so perdonare ma che, da qualche parte, mi obbligo a pensare che è così disperata da non sapere neanche che razza di figlio meraviglioso si sta perdendo.

Prima di andare a dormire non posso non mandargli un messaggio:

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