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Decido di passare a trovare Sergio in appartamento perché, di ritorno dalle sue vacanze, registro qualche piccolo segnale che non mi torna. Dopo un anno e mezzo che lo conosco i dettagli fanno la differenza e saltano all’occhio.
Ci eravamo visti tre giorni prima. Ero andato a prenderlo in stazione, di sera tardi, al rientro dalle tre settimane di mare che aveva appena fatto.

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Allegro, simpatico, su di giri. Bello sorridente. Felice di vedermi. Si è divertito, ha fatto amicizie, si è riposato. L'ideale per ripartire in quarta e iniziare a cercare lavoro seriamente, dopo il buon tirocinio appena fatto a Castorama.

In quei tre giorni però, pur non avendolo ancora rivisto, sento che qualcosa non funziona.

Sono le sei di pomeriggio. Suono alla porta e nessuno risponde. Aspetto un attimo poi apro con la mia chiave. La porta è chiusa con la sicura interna, così che non posso entrare. Mi attacco al campanello e, poco dopo, Sergio arriva ad aprire. Era a letto, tapparelle abbassate, casa sporca da far schifo e roba dappertutto.

Tempo di dire che così non va bene e subito reagisce aggressivo. Azzarda raramente di farlo e di solito molla subito il colpo. Questa volta invece alza il tono. Io non mi sottraggo, anzi, gli vado dietro, per vedere fin dove arriva. Lui non lo sopporta: anche suo padre faceva così, ma io me ne frego. Nel giro di dieci minuti fa le valigie, dice che è stufo e se ne va. Gli chiedo qual è il problema e, rabbioso, mi dice che sono io il problema, che il Servizio sfrutta i ragazzi e che noi ci facciamo belli davanti agli assistenti sociali per poi fare tutto il contrario. Spara a zero su tutti, e soprattutto su di me.

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I padri assenti e violenti, quando tornano con regali costosi e avvelenati, non sanno il male che fanno.

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Gli dico che non è obbligato a stare da noi, che se facciamo così schifo quella è la porta: è libero di andarsene.

Certo che me ne vado!

Riempie freneticamente borse, valige e sacchetti con tutto quello che trova in giro, a casaccio. Mette ogni cosa fuori dalla porta, occupando tutto il pianerottolo. Non riesce più a fermarsi e non saprebbe neanche spiegarne il perché: solo non può non farlo, non può non rompere. Quando arriva a prendere lo stereo si rende finalmente conto che non potrà portare via tutto in un solo viaggio. Allora mi chiede se può tornare il giorno dopo a prendere quello che non riesce a portare via oggi o se deve fare tutto in una sola volta. Colgo la palla al balzo e gli dico che, visto che ha deciso lui di andare via, o fa tutto in giornata o niente. Con i ragazzi funziona così: a volte spaccano il capello in quattro chiedendo dove stanno scritte le regole più ovvie del vivere, altre volte accettano, come se niente fosse, imposizioni ridicole che non stanno né in cielo né in terra! E così, per fortuna, fa Sergio.

Riporta tutto dentro, continuando a offendere e a gettare fango su tutto. Raggiunto l'obiettivo me ne vado, sbattendo la porta e mandandolo affanculo.

Davanti a me due settimane di vacanze. Penso già che non avrò modo di capire cosa sia successo. Si è rotto qualcosa ma non so cosa. Non aveva mai avuto una reazione così, anzi di solito si sottrae allo scontro e, appena ne sente l'odore, indietreggia chiudendosi.

Al mare, le due settimane successive, mi scopro che, mentre bevo il solito caffè e leggo il solito giornale al bar "Il Milanese" di Torre Vado, ogni tanto la testa torna lì, in quella scena così violenta e così inspiegabile. In quel vuoto di parole che, mantenendo la ferita aperta, non le permette di guarire. Mi dico che, chissà perché, Sergio ha finalmente deciso di provare a liberarsi di quello schifo visto e subito, scaricandone un po' su qualcun altro, contando che reggesse. È l'unica spiegazione che so dare di quel terremoto, scartabellando il manuale del buon educatore che sa sempre dare le giuste letture perfettine a ogni situazione. Ma la pancia mi dice che non è solo così...

Di ritorno dalla Puglia non lo cerco e vedo cosa succede. Ci vediamo di sfuggita varie volte, in alcune occasioni riesco anche a parlargli di quanto successo, ma sempre sentendolo come protetto da un vetro. Al di là delle parole, che a volte non contano niente, lui si mette ai margini del suo progetto, quasi parcheggiato, non facendo più niente, aspettando chissà cosa e tirando la corda come a cercare la rottura definitiva.

Finché un giorno mi cerca, perché deve dirmi una cosa.

La sua storia di "ragazzo dei Servizi Sociali" nasce quando un giorno, a 14 anni, riesce a denunciare il papà, che picchia furiosamente lui ma soprattutto la mamma. Quel giorno si rompe in mille pezzi quel quadretto familiare che già stava in piedi con lo scotch. Il colpo definitivo lo dà lui, coraggiosopiccolo eroe che non ce la fa più a sopportare le botte, quelle sberle ricevute rannicchiato sul mobile della cucina, dove il padre lo metteva perché fosse all'altezza giusta, comoda per colpire.

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Sergio è un fiume in piena. Il groviglio di pensieri ora prendeva forma di racconto e spiegazione.

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Non ce la fa a tollerare non soltanto le sberle, ma soprattutto il non riuscire a reagire, a tirare quel calcio risolutivo, dritto dritto sulla gamba offesa del papà, che lo farebbe vacillare e cadere a terra come Golia colpito con la fionda. Si paralizza. Il cervello dà l'ordine ma la gamba non si muove. Un tradimento inspiegabile, che lo umilia e di cui si vergogna. Ma che invece, finalmente, lo porta a denunciare.

 

Ebbene, quel papà, che lui non vuole più vedere e che già da qualche tempo, stranamente, stava cercando di riavvicinarsi alla mamma e al fratellino, è tornato. E se lo sta portando via. Gli ha messo su un piatto d'argento un'assunzione diretta nell'azienda dove lavora. Un contratto concessogli esclusivamente perché figlio di suo padre, che capita proprio nel momento in cui Sergio doveva ricominciare tutto da capo, con i tempi lunghi del cercare lavoro, con le fatiche e i probabili fallimenti a cui avrebbe dovuto sottostare. E invece adesso gli tocca anche umiliarsi di doverlo ringraziare, questo papà, per avergli offerto un lavoro che cercava da tempo. Un lavoro beffardo, senza merito.

Me lo racconta con lo sguardo basso, pieno di vergogna, e io mi scopro a ripensare a mio papà che devo ogni giorno ringraziare per non avermelo mai offerto un lavoro nello stabilimento di cui lui era il direttore generale. Semplicemente perché non gli è mai passato neanche per l'anticamera del cervello che io avessi bisogno di una sua raccomandazione per farcela nel mondo, immaginando che avrei trovato io la mia strada. Il suo è stato l’aiuto più grande che potessi ricevere: non avermi aiutato.

Sergio è un fiume in piena. Il groviglio di pensieri che un mese prima, avvertendo il vento della valanga che stava sopraggiungendo, lo aveva portato a urlare, offendere, scappare, da chi era costretto a rinnegare, ora prendeva forma di racconto e spiegazione.

Con la lucidità di chi ha vissuto direttamente sulla sua pelle l'orrore di un amore incomprensibile che lascia i lividi, mi dice che lui non è mai stato voluto. Non c'è, nelle sue parole fredde, l'intenzione di impietosire o di commuovere. C'è solo la realtà: la mamma non era promessa al papà, ma a un altro. Il papà l'ha messa incinta e lei ha dovuto sposarlo. Peggio ancora: la mamma ha fatto per abortire, ma ci ha pensato tardi e non è stato più possibile farlo. E, tanto per non fargli mancare niente, gliel'ha pure detto.

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E io non riesco a non pensare alla mia mamma, che ha ricevuto dai medici l'angosciante consiglio di non portare a termine la mia gravidanza, perché rischiava la vita a causa di un problema alla circolazione. E naturalmente non li ha ascoltati. E me lo ha raccontato solo 50 anni dopo, poco prima di andarsene. Il suo regalo prezioso è di non avermelo detto prima, lasciandomi libero da ogni altra riconoscenza.

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Da qualche giorno tutte le mattine Sergio scende alla fermata della metro e lì trova il papà che lo aspetta e lo porta in stabilimento in macchina. E lui, tutte le mattine, è terrorizzato che improvvisamente parta una sberla, come quando era piccolo.

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Da qualche giorno tutte le mattine Sergio scende alla fermata della metro e lì trova il papà che lo aspetta e lo porta in stabilimento in macchina. E lui, tutte le mattine, è terrorizzato che improvvisamente parta una sberla, come quando era piccolo. Chiuso in quella piccola macchina non avrebbe scampo. Come quando vivevano tutti insieme, prima che lui mandasse in frantumi tutto quanto. Nel frattempo la mamma ha deciso di tornare a vivere col papà, illudendosi ancora una volta, e non dovendo più stare col figlio più piccolo, collocato dal giudice in comunità. Ed ecco che sullo sfondo avanza la tentazione di crederci, la necessità di proteggere la mamma, il bisogno di non sentirsi più il colpevole. Ma per fare questo c'è bisogno prima di fare pulizia, di togliere di mezzo chi fino ad oggi aveva offerto un'alternativa, un approdo possibile, una base sulla quale scommettere.

Quella litigata e quell'aggressione di due mesi prima era la miccia che annunciava l'esplosione. Un'esplosione silenziosa, fatta quasi in punta di piedi. Uno scomparire annunciato a settembre, con un grido di rabbia per un orrore ineluttabile dove tradimento, vergogna e fallimento si mischiavano insieme, deturpando tutto il futuro possibile. Un futuro che ora si trasformava in un presente sempre rifiutato, non per principio o per orgoglio, ma per lucida analisi sulle conseguenze e per la sensazione di sconfitta che porta con sé.

E infatti Sergio scompare. Prima non facendo più niente di quanto dovrebbe, poi non rispondendo più al telefono né ai messaggi, quindi non dormendo più a casa e trasferendosi dalla mamma, senza più dare traccia di sé, senza più farsi trovare.

Dopo un anno e mezzo di lavoro quotidiano, di scontri e rappacificazioni, di progressi inimmaginabili, vedendolo crescere giorno per giorno.

I padri assenti e violenti, quando tornano con regali costosi e avvelenati, non sanno il male che fanno.

A quel punto il servizio, che solo poco tempo prima, di fronte al suo boicottare ogni cosa aveva proposto la carta della sospensione dall’appartamento, e che ora si trova di fronte un ragazzo non più reperibile, fuori dal progetto e che sta azzerando in un solo colpo il motivo per cui il giudice aveva disposto il suo decreto, decide per l'unica scelta possibile che un servizio educativo possa prendere in una escalation tanto incontenibile e fuori controllo: non fare niente e aspettare.

E, dopo settimane di silenzio, un pomeriggio di novembre, suonando il campanello di casa, senza averne risposta, proviamo ad entrare ma, della porta chiusa con la sicura, se ne apre solo uno spiraglio. Si intravede la televisione lasciata accesa e, nonostante l’ora, non ho dubbi.

Sergio ci viene ad aprire, sguardo annebbiato, come si fosse appena svegliato.

Mi dice che è a casa in malattia. Le solite tonsille che ogni tanto si infiammano. Contrariamente alle altre volte non ha chiesto niente a nessuno, è andato lui direttamente dal medico e poi in farmacia e si è curato per conto suo. La casa è in disordine e gli chiedo di pulirla. Lui prende la scopa e risistema sommariamente la stanza. Poi prende la cassetta del gatto, quel suo gatto che aveva abbandonato per giorni, e la pulisce con cura, come non era mai riuscito a fare.

Mi hanno detto che eravate preoccupati perché non ho dormito a casa. Dovevo avvisarvi?!

Quindi si siede sul divano e mi dice che si è stufato di tutte quelle bugie. Non gli crede, non si fida, non vuole più tornare indietro. Ha deciso di "metterci una distanza". E adesso vuole cercare una casa tutta sua, dove vivere da solo. Ma tra un anno e mezzo – Luca - quando avrò 21 anni...

E invece io so che farà ancora meglio: andrà via prima.


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