Sono cuochi, spie, messaggeri, facchini, mogli e madri, e naturalmente soldati, i bambini e le bambine impiegati nelle guerre di tutto il mondo.
A loro è dedicata la giornata del 12 febbraio. Il loro utilizzo, definito dall’Organizzazione nazionale del lavoro una delle peggiori forme di lavoro minorile e ritenuto dalla Corte penale internazionale un crimine di guerra quando riguarda gli under 15, è impressionante per dimensioni, trattamento, qualità delle azioni imposte.
Quanti siano nel mondo i bambini soldato nessuno può dirlo. Per l’Unicef in Sud Sudan ce ne sono oltre 19 mila; 3.000 sono stati rilasciati dalle Nazioni Unite dall’inizio del conflitto nel 2013, un migliaio dei quali solo nel 2018. Bambini in guerra vivono in Yemen, Centrafrica, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Afghanistan, Siria, e in tutti i contesti di guerre che conosciamo.
Sono convenienti perché docili ai comandi più azzardati, disposti all’indottrinamento, remissivi quando vengono sottopagati. Se utilizzati non propriamente per combattere diventano impossibili da contare, quando la guerra è pervasiva tutti i bambini ne sono coinvolti.
Nel 2000 153 paesi hanno approvato un Protocollo opzionale di accompagnamento alla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo proprio per proibire l’arruolamento di minorenni nei conflitti armati. Sono 6 le Gravi Violazioni individuate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere i bambini durante i conflitti armati e porre fine all’impunità dei responsabili: uccisione e mutilazione; reclutamento o utilizzo come soldati; violenza sessuale; attacchi contro scuole o ospedali; impedimento dell’assistenza umanitaria ai bambini; sequestro.
Il Protocollo appena citato non è l’unico documento internazionale rilevante in materia. Il sito della Coalizione italiana contro i bambini soldato cita ad es. la Carta Africana sui diritti e il benessere del bambino (African Charter on the Rights and Welfare of the Child), ratificata da 46 stati membri dell’Unione Africana su 54, e la Convenzione 182 dell’ILO, sulla “Proibizione e l’azione immediata per eliminare le peggiori forme di lavoro minorile”, ratificata da 175 Stati.
Quanto sia importante che anche i paesi più coinvolti nel fenomeno, come alcuni tra quelli africani, incomincino a mettere sulla carta la decisione di rispettare i bambini, e quindi a riflettere sul tema e a prevedere degli interventi, mi sembra facilmente intuibile, anche se questo non significa immediatamente diventare virtuosi.
Ipocrisia? Forse, ma anche un passo in più verso la possibilità di chiedere aiuto. In questo senso mi ha fatto piacere apprendere dal sito di Intersos, l’organizzazione umanitaria attualmente titolare della segreteria della Coalizione italiana, che la Somalia ha ratificato nell’ottobre 2015 la Convenzione ONU sui diritti dei bambini e degli adolescenti, e che dal 6 gennaio 2017 per arruolarsi nell’esercito nazionale somalo bisogna avere almeno 18 anni.
Ciò non significa che i bambini soldato in Somalia non ci siano più, ma quantomeno è in vigore un accordo secondo il quale le forze di sicurezza nazionali (SNSF), sostenute dalla missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM), trasferiscono alle Nazioni Unite, o ad un’agenzia umanitaria designata, tutti i bambini separati da gruppi armati entro 72 ore dal loro fermo.
Quando è possibile vengono ricongiunti alle famiglie d’origine, negli altri casi sono affidati a un tutore e assistiti in un percorso di recupero che contempla l’aiuto psicologico, la scuola, la formazione professionale e l’avvio verso il lavoro.
Nessun caso è identico. Ci sono bambini rapiti per combattere e altri che si sono arruolati volontariamente per indigenza, imitazione, ribellione, o per rivalsa dopo avere visto i familiari uccisi nel conflitto. E poi ci sono le bambine, le ragazze, a volte orfane che per sfuggire alla strada si sono arruolate sperando di trovare protezione.
Nel tempo tante di loro sono forzatamente diventate madri o mogli per cui il riscatto è ancora più difficile, giacché un futuro probabile sta tra il ripudio e la prostituzione. Si aggiunge, per maschi e femmine, la difficoltà di costruirsi una nuova identità, le ripercussioni psicologiche e mentali, le mutilazioni, le malattie, tra cui l’AIDS.
Qualche buona notizia, tuttavia, l’abbiamo rintracciata. Nel 2018, su un totale di 499 minorenni separati e non accompagnati assistiti, Intersos ha reinserito 106 adolescenti usciti dal conflitto, 65 ragazzi e 41 ragazze, tutti tra i 14 e i 17 anni.
Il trauma per ciascuno di loro sarà difficile e forse impossibile da superare, c’è almeno la speranza di una vita tratta in salvo dalla guerra. E, se gli psicologi abilitati a lavorare con questi ragazzi sono pochissimi, a Mogadiscio l’Università ha attivato un percorso di studi per preparare nuovi operatori.
Questa e ogni ferita, per potersi rimarginare, deve essere accolta.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta