Svariati organi di stampa italiani hanno dato spazio alla storia della sedicenne malese che si è suicidata gettandosi dal terzo piano. Poco prima aveva chiesto ai suoi follower su Instagram se doveva vivere o morire e quasi 7 su 10 (il 69%) le avevano consigliato di togliersi la vita.
Cosa che la ragazza ha fatto, non si sa quanto per scelta o perché influenzata da coloro che la seguivano o – sarebbe meglio dire – la perseguivano. Rispondere alla domanda non è banale: l’istigazione al suicidio di un minorenne, in Malesia, è punita con la pena di morte, e se il peso di quelle risposte venisse provato (sarebbe interessante sapere come) parecchie persone potrebbero essere a rischio.
Il fatto non è isolato: dagli Stati Uniti all’Italia si conoscono casi di suicidio dovuti probabilmente ad un insieme di fattori, ma tra questi c’erano senz’altro anche i messaggi affidati al web.
Che i social siano diffusissimi e costituiscano una fetta importante nella vita degli adolescenti, una fetta tutt’altro che virtuale, è sotto gli occhi di tutti. Lo sa anche Instagram, che ha riunito tra i suoi dipendenti un gruppo di genitori e ha messo a punto una guida per aiutare gli altri genitori a conoscere il mezzo, monitorarne l’uso da parte dei figli (tempo, riservatezza, contatti…) e prevenire atti di bullismo elettronico o altre situazioni spiacevoli.
Non ci sono solo i social in queste storie. Più dei mezzi contano le persone. C’è la fragilità della ragazza malese, l’enorme bisogno di conferme non soddisfatto, c’è tutto quello che non sappiamo sulle persone a lei più vicine e c’è la superficialità, l’irresponsabilità del 69% che tra Death e Life ha scelto la prima.
Stando al primo punto ricordo che nel novembre scorso e di nuovo a maggio, a Rimini, la casa editrice Erickson ha organizzato due convegni che avevano a che fare con la salute mentale dei bambini e degli adolescenti.
Secondo i dati riportati in quelle sedi, in Italia i disturbi psichici riguardano 1 minorenne su 5. Certo, si dirà, una certa quota di disagio fa parte dell’adolescenza. In più, la dislessia o altri disturbi dell’apprendimento anni fa non erano neppure riconosciuti come tali, si veniva considerati asini, o svogliati, senza tante etichette. Vero, tutto vero. Ma al di là della vulnerabilità intrinseca in questa fase di vita non può lasciarci indifferenti l’incremento di ricoveri e di diagnosi psichiatriche.
Stefano Benzoni, neuropsichiatria del Policlinico di Milano, ha portato alcuni dati al convegno di maggio. Tra il 2008 e il 2016 in Lombardia bambini e adolescenti in carico alla neuropsichiatria infantile sono passati da 65mila a 114mila. Dal 4% al 7% della popolazione, mentre investimenti e risorse del sistema di diagnosi e di cura sono diminuiti. I ricoveri per problemi psichiatrici dal 2011 al 2015 nella sola Milano sono aumentati del 21 per cento, da 1.170 a 1.400. La metà sono casi complessi definiti “gravi”. E, fatto non secondario, è praticamente impossibile disporre di dati nazionali omogenei perché, come su tutti gli ostacoli dell’infanzia, anche su questo non esiste una rilevazione costante.
Tra le cause indicate dal neuropsichiatra: accelerazione dei ritmi di vita, dei mutamenti sociali e tecnologici, e poi disagio economico e problemi sociali, relazionali interni alle famiglie. Dal mio punto di osservazione sul contesto aggiungerei: insufficienza di risorse nella sanità pubblica per bambini e ragazzi (diminuiscono gli operatori, aumentano intanto le prese in carico), carenza nella rilevazione e nell’intervento precoce.
Esempio concreto. Se gli psicologi e i neuropsichiatri deputati a lavorare con i bambini nel servizio pubblico sono insufficienti (in alcune realtà dell’Emilia Romagna, che pure ai servizi ci tiene, ogni 4 pensionamenti c’è 1 sola assunzione), riserveranno un intervento ad alta intensità ai casi gravissimi e manterranno un monitoraggio insufficiente su quelli che non lo sono – fino a che, non tutti e non sempre ma una parte sì, lo diventeranno, e avendo saltato la psicoterapia, i gruppi terapeutici ecc. arriveranno direttamente ai farmaci, o ai ricoveri in diagnosi e cura.
Altro esempio. Se bambini vivono con genitori gravemente trascuranti, o maltrattanti, o fortemente conflittuali, o tra loro violenti, e tutto questo non viene segnalato, oppure sì ma si fa l’impossibile per tenere unita la famiglia nonostante tutto, ci si troverà a compiere interventi in urgenza quando i figli, diventati nel frattempo adolescenti che fanno o si fanno del male, restituiscono con gli interessi tutto il disagio che hanno inghiottito durante l’infanzia.
Non a caso gli operatori delle comunità educative testimoniano una aumentata complessità del loro lavoro perché i ragazzi accolti sono sempre più problematici e richiedono interventi terapeutici oltre che educativi.
Non dimentichiamo, naturalmente, il 69% con il pollice verso, e qui fioriscono altre domande. Chissà se conoscevano quella ragazza anche fuori dalla rete, chissà se avevano capito che faceva sul serio.
Senza arrivare alle stragi, ci sono tanti modi per ferire. Se penso agli adolescenti che incontro non mi è difficile riconoscere la stessa superficialità. Si può dire “morte” come si spara dentro a un videogioco, come ci si scaglia nel web contro il nemico di turno, con lo stesso senso di impunità e di irrealtà almeno a primo acchito, finché non c’è un adulto che li stimoli a entrare in profondità. Ma sui social sono quasi sempre da soli.
Una ragazza vola dal terzo piano e me li immagino, quelli del 69%, a protestare: “chi, io?”. Senza pensare alla pena di morte, un po’ di allenamento a comprendere le proprie responsabilità gli farebbe bene di sicuro.
Poi forse non dovrei dirlo, nemmeno pensarlo, ma la ragazza non ha capito, la proporzione è raramente più favorevole: 3 su 10 che scelgono la vita sono già una buona compagnia.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta