Guardi le foto e vedi una ragazza bellissima, a volte in posa, i lunghi capelli fluenti e lo sguardo che si perde lontano, altre volte sorridente e più spontanea. Colpisce per quell’aria fiera, indipendente, libera.
Sappiamo qualcosa di Deborah Sciacquatori perché ha ucciso il padre mentre cercava di fermarlo. Ubriaco, come infinite volte stava aggredendo la madre, la nonna e lei stessa. Per questo l’imputazione originaria di omicidio si è rapidamente tramutata in “eccesso colposo in legittima difesa” e la ragazza ora è in libertà.
Gli articoli pubblicati in queste settimane sulla sua storia sollevano il velo su un vissuto terribilmente diffuso, quello delle famiglie tenute in scacco da un uomo violento.
Il padre, Lorenzo Sciacquatori, è morto a 41 anni. Di lui si legge che è stato un pugile, passione trasmessa a Deborah, era disoccupato e aveva subito un trattamento sanitario obbligatorio. Aveva scontato qualche mese di carcere, nel 2015, per i reati di maltrattamenti in famiglia, resistenza a pubblico ufficiale, rissa e rapina. A quei tempi Deborah era ancora minorenne, che a nessuno sia venuto in mente di chiedersi se il papà era pericoloso?
Dopo l’omicidio le fazioni si sono divise e ognuna è sembrata basarsi su ciò che conosceva dei protagonisti prima di quel fatto.
Gli insegnanti di Deborah hanno sostenuto lei, ragazza coraggiosa, studentessa modello, matura e forte. Tra i conoscenti del padre o i vicini di casa c’è chi ha lodato lui che dopotutto “non era un mostro”, anzi, un uomo buono, una vittima, forse un debole.
Il giorno del funerale “Lorenzo sei un grande” e slogan simili sono risuonati tra la folla e, per quanto sia costume parlare bene dei morti, non capirei le ragioni di questa ostentazione se non fosse che, proprio quanti si sono affrettati ad assolvere il signor Sciacquatori, confrontati con le violenze familiari restano in sospeso: fuori casa era sempre gentile, su com’era in casa loro non sapevano, non sentivano, non immaginavano.
Eppure la madre di Deborah, Antonia, al Corriere della Sera (21 maggio 2019) dipinge la loro vita un inferno ed è difficile credere che non ne trasparisse neppure una fiammella. Le violenze sulla donna anche mentre allattava, la figlia che da sempre «viveva nel terrore». Segue il consueto corredo di contraddizioni: la paura di rovinare il marito con una denuncia, la speranza che possa cambiare, il timore di perdere i figli chiedendo aiuto, il tentativo di proporsi come parafulmine confidando che vengano risparmiati i bambini.
E Deborah: «Mamma faceva sparire ogni oggetto pericoloso da casa per paura che ce lo lanciasse contro. Lui la chiamava “puttana”, le diceva “ti sgozzo come un maiale”, ogni pretesto era buono per colpirla. La cena, i soldi, la casa in disordine. E la obbligava ad avere rapporti che lei accettava per paura del peggio».
Pesano vent’anni di maltrattamenti fisici pesanti, umiliazioni, minacce di morte, violenze sessuali, magari con fasi più tranquille a innescare la speranza di un cambiamento che non arriva mai, anzi tutto ricomincia daccapo in modo più crudele, perché lo è davvero e per la delusione che racchiude.
Non è difficile immaginare la paralisi di Antonia. E allora interviene Deborah, proprio nella fase in cui una figlia può guardare negli occhi i genitori e considerarli pressoché alla pari, per le persone che sono e non per come li vorrebbe o li ha sognati.
Quando impugna il coltello contro il padre che stringe la madre per il collo, come quando un attimo dopo lo tiene tra le braccia dicendo tra le lacrime “ti voglio bene” e gli tampona la ferita per salvarlo, spaventata da se stessa e addolorata per lui, io credo che Deborah abbia in sé questo coacervo di sofferenza ininterrotta, gonfia, esasperata, attorcigliata, stantia, dove l’affetto e la rabbia sono incatenati insieme e il desiderio di avere un padre si mescola alla paura, alla rabbia e alla delusione per quel padre.
La sua reazione è istantanea, certo, ma capiamo bene quanto la forza che anima il colpo non stia in quell’istante, e neppure nel suo fisico ben allenato. Deborah ha una vita di spaventi, vergogna e dolore stretta in pugno – il terrore di perdere la madre, chissà da quanti anni lo porta con sé – e gliela ribalta contro.
Questa giovane donna che ferma il padre a ogni costo – e così salva la madre, la nonna, se stessa – si fissa nel nostro immaginario perché compie un gesto innaturale, sebbene non così raro.
Quello della vittima (oltretutto donna, quindi ipoteticamente debole, però pugile, e poi figlia, da poco maggiorenne) che inverte le parti e diventa aggressore di chi la tormenta da anni (uomo, cioè generalmente più forte e anche lui pugile, e padre, e quindi adulto). Assume su di sé la responsabilità di sovvertire le regole del gioco, una responsabilità che in quella famiglia era urgente da anni ma che non doveva essere sua.
Deborah aveva bisogno di essere protetta, invece è stata lasciata sola. Si deve a questo susseguirsi di omissioni se ha ucciso, a malapena possiamo immaginare che cosa significhi portarne i segni e vivere nel cuore della contraddizione anche adesso, quando lo stesso gesto che ha significato la salvezza in quell’istante, e liberazione dalla violenza per la vita che verrà, è stato massimamente violento, contro il padre, più del padre.
No, Lorenzo Sciacquatori non era un mostro, e neppure Deborah lo è, ne sono certa. So da un pezzo che i mostri non esistono e non vedo perché loro dovrebbero fare eccezione.
Non c’è bisogno di essere un mostro per fare violenza – però la violenza sì è mostruosa, cioè inumana, e bisogna fermarla. Invece, nel vuoto di tutto, proprio questo li ha legati inestricabilmente, padre e figlia, per 19 anni, e lo farà ancora di più adesso. Mi auguro di cuore che Deborah possa salvare se stessa per la seconda volta e, con gli aiuti giusti, attraversare quella violenza e trasformarla, che è cosa ben diversa da dimenticare.
Tante donne che subiscono maltrattamenti in famiglia stanno zitte col terrore che vengano allontanati i bambini. È importante sapere che con la legge attuale non è così.
Dopo una richiesta di aiuto alle forze dell’ordine o al servizio sociale interviene il tribunale per i minorenni. La giustizia minorile mette al primo posto il benessere dei bambini e, quando le mamme chiedono protezione per sé e per i figli, può aiutarle allontanando il maltrattante se è pericoloso, chiedendogli di curarsi se ne ha bisogno e, in ogni caso, di cambiare.
“Se chiedo aiuto mi porteranno via i bambini?” è un libretto su come funzionano i procedimenti del tribunale per i minorenni nei casi di violenza in famiglia. Si può sfogliare e scaricare a questo link.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta