Tasneem è una ragazza pakistana appena maggiorenne. Il padre l’ha promessa sposa a buon prezzo. Con un uomo pakistano, uno sconosciuto e lontano parente il doppio degli anni di lei.
Tasneem è una ragazza pakistana appena maggiorenne. I genitori si sono separati quando lei era molto piccola, lui è venuto a lavorare in Italia e lei l’ha incontrato soltanto una volta da bambina. Arrivata a 18 anni il padre le organizza il ricongiungimento familiare. È grande, ormai, e in Europa avrà maggiori possibilità.
Tasneem gli crede, forse ha anche il desiderio di dare un volto al genitore lontano, ma nessuna opportunità le viene offerta. Non una gita a Venezia o a Roma… neppure un giretto in centro. Si ritrova chiusa in casa, picchiata e umiliata.
C’era proprio bisogno, si potrebbe pensare, di farla arrivare qui affrontando spese e beghe per trattarla in questo modo? C’era, sì, perché il padre l’ha promessa sposa a buon prezzo. Con un uomo pakistano, uno sconosciuto e lontano parente il doppio degli anni di lei. Bisognava perciò che non la vedesse nessuno e che lei stessa imparasse a sottomettersi fin dal primo giorno intanto al padre, domani al consorte. Come frollare la carne prima di metterla sul fuoco.
Tasneem è un nome di fantasia ma questa storia è accaduta davvero, in una cittadina dell’Emilia Romagna un paio d’anni fa, e purtroppo non è un fatto sporadico per il nostro paese.
Solitamente si guarda ai matrimoni forzati come ad una pratica che riguarda luoghi lontani e se ci atteniamo ai numeri è vero, ma ciò non significa che il nostro paese sia esente. Di donne costrette ne ho conosciute tante, come chiunque si dia da fare su questi temi. Donne forzate al matrimonio decenni prima e ormai rassegnate, dedite ai figli. Ragazze (anche ragazzi) che chiedevano aiuto per sottrarsi a un destino imposto, come per Tasneem, dal padre, talvolta anche o soprattutto dalla madre.
Sottotraccia, in Italia, ci sono ogni anno insegnanti o educatori spauriti che subiscono le confidenze degli adolescenti e non le sanno maneggiare – non di rado nel loro temporeggiare i figli vengono riportati al paese dai genitori, e il matrimonio avviene – e ragazze (soprattutto ragazze) che da un giorno all’altro si rattristano, perdono interesse per lo studio, sfuggono alle amiche e infine si ritirano da scuola, contro la loro volontà, senza dire niente a nessuno. Quando va bene insegnanti o educatori attivano per tempo una segnalazione al servizio sociale o alle forze dell’ordine e le ragazze vengono protette, vale a dire allontanate dai genitori, così da deviare il sentiero segnato.
Per la legge italiana costringere un figlio o una figlia a sposarsi non è un reato specifico ma una forma di maltrattamento in famiglia (art. 572 c.p., dai 2 ai 6 anni di carcere) però la soluzione non è tutta qui. Per chi ha meno di 18 anni l’intervento è rimesso al Tribunale per i Minorenni che secondo la mia esperienza, quando non si intravvedono rischi particolarmente gravi per la sicurezza delle ragazze, incarica i servizi sociali di sostenere le figlie, da un lato, e di impegnarsi nella mediazione culturale con i genitori, dall’altro, per provare a mantenere il legame affettivo introducendo un pensiero diverso. Può andare bene, oppure no. Nel “no” penso sia a quando i rapporti non vengono recuperati, sia a quando per riallacciarli le giovani rinunciano ai loro sogni, alla loro libertà.
Per una donna maggiorenne l’alternativa alla costrizione è la fuga. Significa trasferirsi in un’altra regione, con un nome diverso, in modo analogo ai testimoni di giustizia. Il rischio è reale. Pensiamo a Sana Cheema, 25enne italiana uccisa in Pakistan, o a Hina Saleem, ammazzata a Brescia nel 2006. Per l’opinione pubblica ci sono loro, i numeri del fenomeno globale non li conosce nessuno.
In Italia qualche anno fa esisteva un progetto contro i matrimoni forzati. Lo gestiva Trama di terre, associazione interculturale di Imola impegnata contro la violenza alle donne. Solo in Emilia Romagna avevano aiutato decine di ragazze e avevano formulato linee guida per l’intervento. Puntavano l’accento sulla necessità di una rete: se scuola, servizi sociali, forze dell’ordine, magistratura non si parlano e non ne parlano, se non lavorano insieme, ciascun referente da solo non può fare granché. (Intendiamoci, questo è vero sempre nella tutela dei bambini, nel contrasto alla violenza familiare e forse in tanto altro, ma lo è particolarmente per i matrimoni forzati la cui presenza è misconosciuta in Italia).
A spulciare oggi il sito di Trama di terre, quel progetto è riassunto in poche righe e relegato in ultima pagina, per il semplice fatto che non è stato rifinanziato. I fondi contro la violenza di genere – ha spiegato Tiziana Dal Pra, la responsabile del centro, in un’intervista del 2015 – non contemplano la possibilità di fare progetti contro i matrimoni forzati, perciò diventa difficile per le associazioni muoversi su questo terreno. Trama comunque continua a fare il suo lavoro ed è un’eccellenza in Italia. Secondo un buon servizio giornalistico del marzo 2018, in otto anni si era occupata di 49 donne: 31 dal Pakistan, 4 dall’Albania, 3 dal Bangladesh, 3 dal Marocco, 2 dall’India, 1 dallo Sri Lanka, 1 dalla Tunisia, 1 dalla Costa d’Avorio, 1 dall’Afghanistan, 1 dal Kurdistan, 1 dall’Iran.
I casi affiorano – se mai affiorano – uno per volta. Qualche volta accadono nella mia regione e vengono messi a conoscenza della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati, che può intervenire economicamente per rinforzare i progetti d’aiuto. Come è successo a Tasneem.
Dalla sua prigione è riuscita a confidarsi telefonicamente con la madre in Pakistan, che a sua volta ha contattato un parente a Milano, il quale ha interpellato i Carabinieri del paesino dove la ragazza era trattenuta e gli agenti, insieme al Servizio Sociale, si sono presentati per una visita domiciliare. La ragazza era sola in casa e non poteva aprire perché la porta era chiusa a chiave dall’esterno e il padre era assente. L’uomo è stato richiamato, costretto a liberare la figlia e arrestato, mentre la ragazza, che portava segni di lesioni al collo e al volto, è stata medicata. Dall’ospedale è partita la denuncia contro il padre.
Tasneem è stata ospitata in una casa rifugio per donne che subiscono violenza e poi trasferita fuori regione. La madre l’aveva avvisata telefonicamente che uno zio dal Pakistan voleva venire in Italia a vendicare l’onore familiare. La ribellione poteva essere punita con la morte. Come Fondazione le abbiamo destinato un gruzzoletto per sostenerla negli studi e nella ricerca di un’autonomia.
Non ho più avuto notizie di Tasneem. Gli operatori la descrivevano descritta come una ragazza che per l’aspetto fisico e il grado di maturità dimostrava 11-12 anni, desiderosa e veloce nell’apprendere, grata per le attenzioni che riceveva ma al tempo stesso sofferente e smarrita, molto bisognosa di affetto, incerta sul futuro che le appare pericoloso e irto di ostacoli sia in Pakistan che in Italia. Spero ce l’abbia fatta.
È davvero difficile, per queste giovani donne, andare fino in fondo per affermare la loro libertà di decidere se, quando e con chi sposarsi e, in ultima istanza, essere protagoniste della propria vita. A tutte loro, oggi, una mimosa.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta