Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di Indro Montanelli che negli anni Trenta, durante la guerra in Etiopia, prese in leasing come schiava sessuale un animalino docile di nome Destà, non si capisce bene se di 12 o 14 anni, come allora si usava per proteggere gli stranieri dalla sifilide.
L’ho detto cucendo insieme parole del giornalista e l’impatto su di me non migliora riconoscendo l’afflato con cui, sul “Corriere” del 12 febbraio 2000, ha ricordato il suo ritorno in Etiopia nel ’52. La prima tappa fu per rivedere Destà che lo accolse nella sua famiglia, si era nel frattempo sposata e aveva avuto tre figli, e lo trattò come un padre – concezione quantomeno discutibile della funzione genitoriale – ad attestare la magnanimità del trattamento che le riservò allora.
L’autore spiega che la ragazza durante il leasing non poté subito servirlo per il suo odore sgradevole, avendo i capelli intrisi di sego di capra, e perché era – espressione singolare – infibulata dalla nascita, si vede che in Eritrea l’infibulazione è congenita. “Il che”, ricorda l’interessato, “oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile”. L’idea del brutale intervento mi fa accapponare la pelle e, viene spontaneo aggiungere, lei avevano dovuta mutilarla per renderla insensibile, lui era già pronto di suo.
L’episodio è tornato di attualità ora che i Sentinelli di Milano hanno richiesto – e non ottenuto – di rimuovere la statua eretta in ricordo del giornalista in un parco di Milano e su questo, davvero, non ho un’idea precisa. Prima che di donne e bambini si tratta del rapporto tra vita pubblica e privata di un personaggio di rilievo, lo stesso riguardo dovrebbe impedirci di ammirare i quadri di Caravaggio, omicida, o di guardare i film di Polanski che ha ammesso – mica subito, passati gli ottanta cioè cinquant’anni dopo i fatti – di aver stuprato (e già basterebbe al biasimo, ma per giunta) delle minorenni.
Sarà che è appena trascorsa la “Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile” (12 giugno), e il fenomeno secondo stime Unicef continua a riguardare – oggi, non negli anni Trenta del secolo scorso – oltre 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni, molti dei quali sessualmente sfruttati, ma credo che dovremmo indignarci per questo. Quando un manager in trasferta riceve una bambina come benefit insieme ad alcool e droga per rinsaldare le relazioni di lavoro, la differenza con la vicenda di Montanelli non so davvero dove sia.
Secondo Ecpat (organizzazione contro lo sfruttamento sessuale dell’infanzia) ogni anno tre milioni di persone viaggiano per turismo sessuale; di esse, circa 250mila cercano vittime minorenni, il cui sfruttamento genera un mercato da 20 miliardi di dollari – e il fenomeno è sottostimato. Il primato, con 80mila partenze l’anno, spetta all’Italia; vengono poi Germania, Giappone, Francia, Stati Uniti, Regno Unito e Cina. Secondo un rapporto ripreso dal “Daily Telegraph” di qualche anno fa le mete predilette dai nostri connazionali sarebbero Kenya, Santo Domingo, Colombia e Brasile. Vanno aggiunti gli stessi Cina e Giappone, fulgido esempio di import-export, insieme a Corea e Thailandia.
Tra quei turisti sappiamo trovarsi persone di diverso livello culturale ed economico, per il 90% uomini, concentrati nella fascia dei 20-40 anni. Solo in minima parte (5%) sono pedofili, gli altri vanno in cerca di trasgressione, occasionalmente o come clienti abituali, e hanno probabilmente nelle loro città relazioni sessuali con persone adulte, più o meno consenzienti. Le donne con il loro 10%, che è poco ma non irrilevante, si muovono in modo diverso, ingaggiano giovanissimi accompagnatori che restino con loro per l’intera vacanza, il che suscita moti di romanticismo o compassione del tutto fuori luogo: la pedofilia è pedofilia.
Pochi sanno di poter essere perseguiti penalmente in Italia anche se segnalati all’estero. Per metterli in guardia Mete Onlus ed Ecpat, nel 2016, hanno affisso manifesti informativi in 57 aeroporti italiani. Lodevole, ma ho il sospetto che l’informazione in sé abbia scarso effetto deterrente sulla perversione e il razzismo, oltretutto preservati in molti paesi dalla possibilità di comprare il silenzio della polizia. Un’attività d’indagine coordinata a livello internazionale avrebbe qualche possibilità in più.
Ho citato anche il razzismo e non trovo un altro termine per queste persone che in rete, riferisce ancora Jennifer Guerra su “The Vision”, considerano le bambine scimmiette da castigare, prede da catturare, furbette che li sfruttano e li rendono vittime. Le apprezzano quando sono docili, le rifiutano se troppo “consumate” dai clienti “del terzo mondo” che le hanno rovinate. “Qualcuno consiglia di ‘infilzarle alla brutta da dietro’, anche mentre dormono: non si lamenteranno. Nessuno fa notare che quello non è sesso, nemmeno a pagamento, ma stupro”. Quello che manca, invece e non a caso, è la voce delle vittime. Qualcosa ricaviamo da un bell’articolo uscito sul Guardian e aggiornato nel 2019.
Chi ha paura di volare fa turismo in Italia, a sud dove è facile irretire minori stranieri non accompagnati in fuga dai centri di accoglienza, o dovunque per rivolgersi a ragazzi sinti o rom – lo sfruttamento, si sa, “è nella loro cultura” – e a prostitute minorenni dell’Est Europa, Asia, Africa.
Sul tema c’è una canzone, non voglio proporla in coda anche se mi piace. È “Il gigante e la bambina”, cantata da Ron. Interpretazioni diverse la riferiscono a un episodio non si sa se trentino o emiliano, per certo parla dello stupro e omicidio di una minorenne. I fan lodano la canzone perché rompe il tabù della pedofilia ma sorvolano sulla tenerezza: quando vengono ritrovati i due corpi, “falco e passero abbracciati come figli del Signore”, l’assoluzione è palese, non c’è scarto tra il pedofilo omicida e la sua vittima. Ho perfino visto attribuire un significato nobile all’assassinio della bambina: il gigante l’ha uccisa ma nel suo interesse, suo di lei, per risparmiarle l’onta dopo essere stata stuprata, da lui.
Preferisco chiudere con il provino italiano del film “Talking to the trees” che nelle nostre sale non è stato proiettato. Peccato, valeva la pena, nelle agenzie turistiche magari. Tratta di una donna che raggiunge il marito in Cambogia dove lui sta lavorando e lo sorprende in un bordello con una piccola schiava sessuale. Disgustata lascia il consorte ma porta in salvo la piccola, e altre si accodano, in un viaggio di speranza.
Forse davvero qualcosa di bello potrà nascere, nella repressione come nella prevenzione e nell’educazione, e nella lotta alla povertà, solo grazie alla collaborazione internazionale tra chi ha a cuore i diritti umani.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta