Che il mito della casa come dolce rifugio degli affetti durante la chiusura per il coronavirus fosse ingenuo o in malafede lo abbiamo ripetuto in molti, tutti quelli che conoscono le ombre dell’ambiente familiare. Se già la convivenza è difficile quando ci sono ragioni per spezzarla – il lavoro, la scuola, le amicizie, gli interessi personali… – nella continuità diventa insopportabile.
Prima di noi la Cina nell’immediato post-lockdown ha assistito a una impennata di divorzi.
È in famiglia che si consumano le violenze peggiori contro le persone più fragili nel confronto fisico o psicologico, prima di tutto donne, bambini, anziani, disabili. Tra questi soggetti, e nonostante le difficoltà, le donne hanno maggiori strumenti per chiedere aiuto. Inoltre i dati, pur malamente, per fortuna vengono raccolti e aiutano a dare una dimensione al fenomeno.
Leggevamo su Repubblica, nel maggio scorso: “Solo in Gran Bretagna, la polizia ha arrestato più di 4mila persone per abusi domestici nelle prime sei settimane di isolamento nel Paese; le telefonate al numero creato dal governo per chiedere aiuto sono aumentate del 49%”. Andamenti simili sono stati osservati in ogni angolo del pianeta, dal Sud America, all’Asia, agli Stati Uniti. “Il Parlamento europeo”, scriveva ancora Repubblica, “ha trasformato uno dei suoi edifici a Bruxelles, quello dedicato a Helmut Kohl, in un centro di accoglienza per le donne”. Europol ha rilevato andamenti analoghi in Portogallo, Polonia, Kossovo.
In Italia, dopo un periodo in cui le richieste di aiuto al numero verde 1522 sono crollate – non è difficile capire il perché: come si denuncia un maltrattante quando lo si ha continuamente accanto? – i dati sono cresciuti a dismisura a partire dal 22 marzo, riducendosi ciclicamente nel fine settimana o nelle feste comandate quali Pasqua o il 25 aprile, quando probabilmente la vicinanza del maltrattante era ancora più stretta. Nei tre mesi da marzo a maggio le richieste di aiuto al 1522 sono più che raddoppiate passando dalle 2318 nel 2019 alle 5110 nel 2020. Idem per le segnalazioni da parte di familiari o amici, mentre sono quasi triplicate le necessità di consulenza o supporto. (I grafici sono nostri su dati Istat e del Dipartimento Pari Opportunità).
Non si tratta di un virus parallelo al covid, tantomeno del famigerato raptus che costringe malcapitati ad agire violenza. Le aggressioni proseguivano da anni nel 79% dei casi quando si accanivano sul corpo della donna, nel 73% se di tipo psicologico. L’obbligo di respirare la stessa aria per 24 ore al giorno ha probabilmente spinto a non sopportare più, vuoi perché le violenze si erano fatte più gravi o più frequenti, vuoi perché la mancanza di momenti di distensione le hanno rese più evidenti e insopportabili. Tra le altre segnaliamo la testimonianza di Marisa che ha denunciato il marito a pochi giorni dall’ottantesimo compleanno. Ha raccolto la sua testimonianza Mario Calabresi per il suo sito Altre/Storie.
Alla vetta di questa triste escalation resta il femminicidio. Da marzo a luglio 2020 sono diminuiti gli omicidi di uomini rispetto all’anno precedente (da 140 a 109), ma non quelli che hanno riguardato donne (da 51 a 50) e il primato resta ai partner o ex partner. Mi limito a ricordare le vittime di settembre. Sono così diverse per età, condizione personale, luogo di residenza, che da sole bastano a farci capire quanto il fenomeno sia trasversale alle categorie mentali e sociali classiche.
Il corpo di Luana Rainone, 31 anni, è stato ritrovato in un pozzo la mattina del 4 settembre 2020 nelle campagne di Poggiomarino in provincia di Napoli. La donna, sposata e madre di una bambina, era scomparsa dal precedente 23 luglio. Ha confessato l’omicidio un uomo con il quale aveva una relazione. Lui era sotto l’effetto di droghe.
Claudia Corrieri, 38 anni, residente in provincia di Pistoia, è stata uccisa il 17 settembre dal compagno che si è poi suicidato. La figlia di 2 anni era in casa durante l’omicidio.
Marinella Maurel, 66 anni, friulana, è morta la sera del 22 settembre per le coltellate del marito, di 66, che ha subito confessato. L’uomo non era mai stato denunciato prima di allora.
Maria Masi, 41 anni, piemontese, era in fase di separazione dal marito e si era trasferita dai genitori con i figli adolescenti. Il 26 settembre ha accettato un ultimo incontro con l’ex, che le ha sparato e si è poi suicidato. L’uomo era in sedia a rotelle, è incredibile immaginarlo chiedere aiuto ad alcuni giovani per superare il gradino di casa, collegare la richiesta di solidarietà alla violenza che è seguita.
Al conteggio sfuggono le donne uccise attraverso i loro bambini. Penso ai gemelli Elena e Diego, 12 anni, uccisi dal padre il 26 giugno scorso, o ad Andrea, 11 anni, ammazzato dal padre il 20 settembre. Lo dico e subito tengo a precisare che non sto perdendo di vista le prime vittime di questi omicidi, pena usarli anch’io, come propaggine della madre, nel medesimo stile del loro assassino. Eppure è chiaro l’uso strumentale dei bambini a danno della donna.
Una storia analoga la racconta un bel film di Ferzan Ozpetek programmato da poco in Rai, “Un giorno perfetto” (2008), tratto dal romanzo omonimo di Melania Mazzucco. L’incipit è nel frammento che segue, quando lo sgomento bussa alla porta.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta