Bisognerebbe conoscerla bene, la storia di Saman Abbas, per commentarla senza dire sciocchezze.
In questi giorni ne ho lette parecchie, formulate per piegare la vicenda ai propri scopi: contro o a favore dell’integrazione culturale, della cittadinanza ai migranti, della religione musulmana. Per validare l’approccio della destra o della sinistra. Per dare addosso alla cultura islamica o al maschilismo planetario.
Eppure Saman Abbas non voleva essere un simbolo, o almeno non risulta fin qui. Voleva scegliere per sé, decidere la propria vita. E farlo come giovane donna, di origine pakistana, da tempo in Italia e con un progetto da realizzare. A 18 anni poteva decidere con la propria testa se accettare o meno l’aiuto delle istituzioni e, in caso di rifiuto, nessuno poteva forzarla, proprio nel rispetto che si deve alle persone adulte e che la famiglia le ha negato.
Fonti male informate insistono a dire che non è stata allontanata dai genitori. Il messaggio più o meno esplicito è: si rubano i bambini alle famiglie buone e brave e si lasciano in casa con gli orchi – e non è vero. Quando, nel novembre 2020, la ragazza ha fatto presente che il mese dopo avrebbe dovuto sposarsi in Pakistan contro la propria volontà, è stata accolta in una comunità per minorenni con un provvedimento urgente del servizio sociale confermato dai giudici minorili. È così che deve essere e così è stato. Aveva 17 anni.
Che cosa succede a un minorenne in tutela una volta raggiunta la soglia della maggiore età? Se ce ne sono i presupposti – e qui c’erano di sicuro – può rimanere in comunità fino ai 21 anni (al massimo) con un altro provvedimento, amministrativo, sempre del tribunale per i minorenni, che può emetterlo solo se incontra la volontà della persona interessata. Elena Carletti, sindaca di Novellara, ha dichiarato: “Le cose sono cambiate quando Saman ha raggiunto la maggiore età perché per la legge italiana nessun servizio sociale né il tribunale possono imporre a una maggiorenne alcuna azione senza il suo consenso. Il raggiungimento della maggiore età non comporta un’automatica interruzione del progetto educativo, ma ne richiede una modifica. (…) Tutto ciò è stato fatto per Saman dai servizi sociali della Bassa Reggiana che si sono attivati anche dopo il suo allontanamento volontario dalla comunità ad aprile, seguendo la delicata vicenda con estrema attenzione e rispetto, in totale accordo con autorità giudiziarie e forze di polizia” (Resto del Carlino di Reggio Emilia, 4 giugno 2021).
In un caso come questo, dove il tema è la violenza di genere, non c’è solo la tutela minori. Un’ulteriore possibilità di protezione è data dai Centri antiviolenza che in Emilia Romagna funzionano, gestiscono case rifugio, accolgono ragazze in quelle condizioni. I Carabinieri – ai quali Saman si è rivolta anche dopo il rientro in famiglia, il 22 aprile, per denunciare il padre che le tratteneva i documenti – riportano di averle rinnovato la possibilità di uscire di casa e di avere ricevuto un rifiuto. Avrebbe detto di sentirsi tranquilla fino al 10 giugno, quando i genitori sarebbero rientrati in Pakistan, e che si riservava di chiedere il loro aiuto solo nel caso avesse capito che volevano rimpatriare anche lei (Quotidiano Nazionale, 10 giugno 2021). Quanto è difficile rinunciare a cambiare la realtà, riconoscere quando l’unico modo per mettersi in salvo è recidere i legami più cari.
Il timore di essere uccisa, l’esatta proporzione del rischio che stava correndo, Saman li avrebbe realizzati successivamente. Si sa che il 30 aprile alle 23,30 ha confidato le sue paure al fidanzato, a mezzanotte è scappata di casa dopo una lite, lo zio è stato incaricato di riacciuffarla – e da allora se ne sono perse le tracce. È scappata quando ha capito fino in fondo ciò che poteva accadere, e forse a quel punto non ha avuto il tempo, la possibilità di cercare soccorso.
Emerge l’immagine di una ragazza come tante che conosciamo, fragile e spavalda, bisognosa di aiuto ma con un proprio progetto bene in mente, da portare avanti da sola. Una ragazza che forse, nonostante le liti, non poteva immaginare di essere sacrificata dagli affetti più cari. Uno dei nodi imbarazzanti su cui si riflette con fatica è proprio il fatto che l’autodeterminazione, sacrosanta, ha il suo rovescio in un margine di rischio. È indubbio che tanti femminicidi avvengono perché le richieste di aiuto delle donne non sono adeguatamente raccolte, ma è altrettanto vere che molti crimini vengono evitati grazie all’intervento del sistema di protezione, purché venga accettato dalle donne vittime di violenza.
Per non sentirsi razzisti c’è chi afferma che in questa storia solo il maschilismo conta, e non ci sono discriminanti date dalla cultura d’origine. Perché non possiamo guardare la realtà? Certo le culture non sono monoliti, e per fortuna. È pakistano il fratello minore di Saman che sta collaborando alle indagini ed è vittima a sua volta; lo è il fidanzato della ragazza che suppongo non si opponesse ai jeans di lei o alle labbra truccate, e che sta lui pure dando un contributo importante. Emergono tra l’altro le pressioni che lui stesso, pur essendo un uomo, ha ricevuto dai genitori della fidanzata. Essere pakistani non equivale a sostenere l’oppressione della donna, ce lo insegnano le seconde generazioni sostenendo un compito colossale, che andrebbe agevolato dalle istituzioni in Italia anche riconoscendo la cittadinanza a queste e a questi giovani. Però sarebbe falso dire che una ragazza italiana e una pakistana hanno la stessa probabilità di essere forzate al matrimonio, o di essere ammazzate quando lo rifiutano. E il matrimonio forzato, in alcuni contesti, non è neppure una prerogativa femminile, né è imposto dai maschi soltanto.
Trovo miope l’indignazione per il coinvolgimento della madre di Saman, che a quella visione – arretrata, perché non possiamo dirlo?, e irrispettosa dei diritti umani – appartiene quanto il padre o lo zio della ragazza. Quella visione le è stata imposta e l’ha guidata, definita, e oppressa, per tutta l’esistenza. Ho conosciuto tante Saman che chiedevano aiuto. Alcune ce l’hanno fatta, a caro prezzo, altre si sono piegate al progetto familiare. Tante erano forzate dalla madri non meno che dai padri, a volte anzi con maggior forza proprio dalla mamma. Il patriarcato in certi contesti si regge sull’attiva collaborazione delle donne ed è pericoloso proprio perché non è riconosciuto come violenza. Disegna la normale struttura delle relazioni sociali, economiche, familiari… ed è interiorizzato, ammesso e riprodotto ugualmente da entrambi i sessi.
Non è stato forse così anche alle nostre latitudini, prima che una generazione di ragazze e ragazzi rifiutasse quel tipo di dominio? Non serve guardare lontano per ricordarci cosa abbiamo vissuto: solo nel vicinissimo 1981 è stato cancellato il delitto d’onore dal codice penale italiano, e dopo i femminicidi ancora si ascoltano commenti – e qualche volta si leggono sentenze – che sembrano rimpiangerlo.
Rapportarsi con i messaggi appresi fin dalla nascita in modo critico e trasformarli è un’avventura possibile, entusiasmante, dolorosa, che espone alla solitudine e a pericoli ancora peggiori, come la storia di Saman Abbas dimostra. Ciò che collettivamente è ritenuto giusto cambia lentamente, grazie a minoranze dissidenti che nel tempo riescono a far valere una posizione diversa. Pronunciandola, vivendola e, purtroppo, assumendosene i rischi. Il lieto fine non è scontato. Qualche volta c’è.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta