Essere parte dell’Unione Europea fa bene ai nostri diritti. Negli anni mi è capitato di pensarlo diverse volte su questioni ambientali, o parlando di razzismo, disabilità, vittime di reato, violenza di genere.
È successo di nuovo nelle ultime settimane quando ho appreso dell’ultima condanna comminata all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
Per ricapitolare l’intera vicenda occorre spostarci indietro nel tempo, fino al 2008. Una studentessa universitaria di 23 anni denuncia 7 giovani tra i 20 e i 25 anni per quello che lei ha vissuto come stupro di gruppo, nella notte tra il 25 e il 26 luglio, alla Fortezza da Basso di Firenze. Seguono gli arresti in attesa del processo, una condanna per 6 imputati in primo grado, l’assoluzione per tutti in Corte d’Appello.
È ormai il 2015, sono passati 7 anni, e la ragazza non demorde. Chiede alla Procura di presentare ricorso per proseguire nel giudizio. Il processo invece si ferma e la giovane, insieme alle avvocate che la assistono, Titti Carrano e Sara Menichetti di D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), presenta un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il loro scopo non è mettere in discussione il contenuto della sentenza, bensì il linguaggio con cui è stato espresso.
Eccoci di nuovo nel 2021. La Cedu conclude la sua analisi e condanna l’Italia per le espressioni sessiste e irrispettose usate dai tre magistrati (un uomo e due donne) i quali, per spiegare la poca credibilità della persona offesa, fanno riferimento alla sua biancheria intima, agli atteggiamenti provocanti, alle scelte artistiche, alla bisessualità, alla “vita non lineare”. Arrivano a dire – questo a me sembra il mistero più grande – che la giovane ha sporto querela per trovare pace rispetto ai propri comportamenti censurabili, con uno sforzo interpretativo quasi psicoanalitico e, davvero, gratuito. Possono non crederle, ma non vedo la necessità di sostenere ipotesi su ciò che ha dentro. Può legittimamente essere lei a parlarne, come ha fatto dopo l’assoluzione con una lettera da leggere e rileggere, ad esempio qui.
Secondo la Cedu i magistrati italiani hanno infranto la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che, all’art. 8, sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare da parte dell’autorità pubblica, salvo siano minacciati il benessere economico del paese, la sicurezza nazionale, l’ordine e la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, la protezione dei diritti e delle libertà altrui. Ora, è evidente che argomenti come quelli accennati non proteggono la sicurezza del paese e non prevengono la violenza. Rischiano semmai di incentivarla.
Mi affido alla traduzione dal francese del magistrato Marco Bouchard, cui si deve un commento molto articolato su “Diritto penale e uomo”. Secondo la Cedu «il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’Appello di Firenze veicolano il pregiudizio sul ruolo della donna come si presenta nella società italiana e che è idoneo a ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere a dispetto di una quadro legislativo soddisfacente».
L’Italia, insomma, predica bene ma razzola maluccio. Si dota di buone leggi che inneggiano all’uguaglianza tra i sessi, ma nei fatti ripropone posizioni che giustificano qualsiasi azione verso una donna non conforme a uno standard non si sa come definito. E dunque, se lei è bisessuale, se ha determinati comportamenti, se ha bevuto, non è poi strano che 6 uomini la considerino disponibile. (Quale giudizio morale vada riservato a quei giovanotti, che cosa ci dica di loro quel modo di “divertirsi” e se possa, anche questo, orientare la sentenza, non è dato saperlo). Questo approccio al tema non solo guida i giudici nell’applicare la legge, ma fa sì che altre donne si guardino bene dallo sporgere denuncia temendo di incappare in un sistema viziato da pregiudizi.
Dalla condanna consegue un risarcimento alla ragazza per 12mila Euro e la necessità – che la Cedu non può indicare, dovendosi esprimere sul fatto specifico, ma si ricava facilmente – di una formazione diffusa e approfondita per coloro che operano a contatto con storie di violenza di genere, accertata o meno.
Non conosco gli atti di quel processo, ma viene spontaneo formulare qualche dubbio sull’assoluzione, se davvero era basata su quel tipo di considerazioni. Questo non cambia nulla sul piano giudiziario: l’assoluzione è per sempre. Qualcosa però ci dice su quanto potrebbe essere accaduto quella notte alla Fortezza da Basso, e sui limiti della giustizia.
È ingenuo aspettarsi dai magistrati un’applicazione asettica ed equanime del codice penale. La mia piccola esperienza me ne ha dato prova più volte vedendo situazioni analoghe affrontate in modo convintamente e motivatamente diverso da decisori differenti. Coloro che applicano la legge sono persone, hanno proprie convinzioni, valori ed esperienze, lenti più meno deformanti per comprendere la realtà. Dire questo non è mancare di rispetto alla magistratura ma prendere atto di un fatto inevitabile, tanto più quando si discute di questioni che fanno parte della vita di ciascuno di noi come le relazioni familiari, gli affetti, o i rapporti tra i sessi.
Assunto questo come dato di partenza, non c’è che sperare in una crescita culturale, che dia impulso a una giustizia più giusta, che concorra a una crescita culturale, che dia impulso a una giustizia più giusta, che concorra a una…
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta