Negli ultimi mesi diverse città in Italia inaugurano mostre che riproducono i lavori di Shamsia Hassani, l’artista afghana nota per i murales con i quali racconta l’universo femminile del suo paese. È un modo per non dimenticare l’Afghanistan ora che i media nazionali hanno abbassato i riflettori.
Anche a Ferrara, la città in cui vivo, è stata allestita una mostra di questo tipo, semplicissima, artigianale. Accanto alle stampe ci sono brevi testi che ricordano la cronologia del conflitto, con un’attenzione particolare alla condizione femminile di ieri e di oggi in quell’area, e tratteggiano brevemente la biografia dell’artista.
Nata nel 1988 in Iran dove i genitori si erano rifugiati per scappare dalla guerra, Shamsia Hassani è ritornata in Afghanistan nel 2001 dopo la caduta dei talebani ed è recentemente riuscita a fuggirne in seguito al recente rovesciamento della situazione politica. In questi vent’anni è riuscita ad affermarsi a livello internazionale in un campo, quello artistico, che per il regime dei talebani è poco raccomandabile di per sé e ancor più per le donne, ed era docente di scultura in una università afghana fino alla recente fuga.
Shamsia è forse la più nota tra le artiste afghane ma non è l’unica. Un recente articolo del Guardian illustra anche altri profili, un’attenzione preziosa per ricordare a noi distratti che la realtà è più ricca e variegata di quanto pensiamo e per scoraggiarci dall’idealizzare un solo personaggio.
Pur con questa consapevolezza mi è piaciuto visitare la mostra che a Ferrara è stata preparata da due associazioni, Cittadini del mondo e Biblioteca popolare giardino, in uno spazio a pochi passi dalla stazione ferroviaria. Dopo questi primi giorni di apertura diventerà itinerante e sarà ospitata prevalentemente nelle scuole cittadine per parlare ai più giovani di guerra e di diritti.
Hanno lunghe ciglia, le donne di Shamsia. Tengono chiusi gli occhi per vedere meglio, guardano dentro di sé. Non di rado dalle loro ciglia sgorgano lacrime.
La bocca è assente, cosa dovrebbero farsene, del resto, le donne di avere una bocca se il diritto alla parola è precluso e anche il nutrimento sembra proibito?
Avvolte nei lunghi abiti tradizionali le donne di Shamsia ci parlano attraverso le mani e i piedi. Mani che offrono, cullano, avvolgono, e piedi che affrontano il rischio di camminare su un filo, di cercare la libertà dove libertà non esiste.
Nella pittura le mani delle donne non sono armate, non cercano vendetta. Sono tutte concentrate nell’affermare il potenziale delle loro vite sospese. Ciò che la realtà non può dare, il sogno può. L’altalena che attraverso la finestra di un palazzo concede alla ragazza la grazia di respirare all’aria aperta è un po’ volare, è un librarsi fugace e intenso nella fiducia di una verità sperimentata e troppo bruscamente sfumata prima di potersi tramutare in una impostazione culturale certa.
Spesso le donne di Shamsia portano fiori. Qualche volta i fiori possono diventare sangue, possono essere luce. Non c’è dubbio che siano nati nelle tenebre e forse hanno con le tenebre un intimo legame, si incaricano di rischiararle perciò.
In tante immagini tra le mani reggono strumenti musicali: tastiere che circondano palazzi o portate intorno al collo come collane, violini per danzare, chitarre che coincidono con il centro della gravidanza o che contengono il mondo. La musica è rivoluzionaria perché richiede ascolto, e ascolto è il contrario di violenza. La musica richiede attenzione, ricerca dell’armonia, della bellezza.
Proprio la bellezza accompagna ogni pannello. L’immagine va oltre la denuncia per parlare il linguaggio della poesia. Per questo ci commuove, mentre conserviamo sulla retina il ricordo delle atrocità recenti, provvisoriamente archiviate soltanto per noi qui al sicuro.
Le donne di Shamsia assomigliano alla loro creatrice. Sono convinta non sia una questione di autoreferenzialità. Quando guardiamo quelle immagini Shamsia è tutte le donne e tutte le donne sono lei. È le bambine costrette a un matrimonio forzato. È le donne che non possono uscire di casa da sole, andare a scuola, lavorare. È le giudici, le avvocate che sanno di essere nel mirino per avere impiegato la vita precedente a portare a processo uomini autori di violenza sulle donne. È le donne uccise perché non conformi.
È Frozan Safi, 29 anni, docente universitaria e attivista per i diritti umani, uccisa prima che potesse trovare rifugio in Germania, ed è le altre donne ritrovate di recete e non ancora pienamente identificate. È la migliore riprova che le donne afghane hanno protetto la loro libertà intima, interiore, a dispetto di ogni chiusura o imposizione.
Certo, in Afghanistan ci sono donne che si aggregano per richiedere il riconoscimento di un potere o di una prerogativa istituzionale, ma perfino chi non scende in piazza può tenere fede alla propria libertà coltivando il proprio silenzio interiore e dandogli voce. Del resto lo sappiamo, ogni schiavo può fare questo – può essere imprigionato il corpo di un uomo ma non i suoi pensieri, valori ed emozioni se si è capaci a tal punto di desiderare, e tante di queste donne sfuggono come possono a una condizione di schiavitù.
Sono quasi sempre sole, le donne di Shamsia. Unica compagnia ammessa è il figlio nel ventre o nei primi anni di vita. Sagome maschili talvolta appaiono e sono uomini armati, ombre impersonali e senza volto. Recenti articoli informano che uomini come questi stanno cancellando dai muri di Kabul ogni elemento creativo donato da queste artiste. Non è la peggiore delle loro violenze ma è una stilettata per ciò che significa. Senza le donne i nuovi potenti non hanno alcuna possibilità di bellezza. Chissà se se ne accorgeranno.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta