A Reggio Emilia Mirko Genco, 24 anni, ha ucciso Juana Cecilia Loayza. L’ennesimo femminicidio, simile e diverso da tutti gli altri.
Anche qui, come in crimini precedenti, la vittima aveva già sporto una denuncia per stalking cui era seguita una condanna patteggiata a due anni di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena. Come dire: sei condannato ma ti diamo fiducia e per adesso non vai in carcere, se poi commetti altri reati allora…
Dopo la morte di Juana i giudici reggiani hanno spiegato che la sospensione era stata concessa con il patto che il giovane frequentasse un centro di recupero per uomini autori di violenza (Repubblica, 22.11.21). Risulta per la verità che abbia appena accennato ad andarci, interrompendo subito il percorso. (Mi chiedo se in casi simili il Centro per autori di violenza è tenuto a segnalare al tribunale questa interruzione, e d’altra parte non so se per Genco lo abbia fatto, potrebbe essere. In generale quando gli operatori di questi centri percepiscono segnali di pericolo, per la sicurezza della persona in carico o di altri intorno a lui, la privacy dovrebbe essere infranta).
La presidente del tribunale di Reggio Emilia, Cristina Beretti, protesta che quella sospensione era giusta perché Genco era incensurato e aveva promesso di andare al centro, diversamente si dovrebbero sospendere i principi costituzionali per una categoria di autori di reato. La capisco, in parte. È senz’altro vero che nessuno può scontare una pena per un reato che non ha commesso, al solo scopo di scongiurare il rischio che compia quel gesto domani. Il problema è particolarmente evidente proprio nello stalking: una persona è ossessionata, ha commesso violenza ma non in modo grave, riceve una pena entro i limiti per la sospensione, dovrebbe andare in carcere per il solo fatto di essere stato uno stalker, anche se non sappiamo come si comporterà d’ora in avanti?
«Non abbiamo la sfera di cristallo», ribatte appunto la presidente Beretti. Ma enuncia lei stessa i criteri che un giudice si dà nella determinazione della pena: «comprensione del contesto, accertamento del fatto, applicazione della norma». Anche per decidere sulla sospensione si dovrebbe ripartire dalla comprensione del contesto. Se è vero che si fonda su una prognosi favorevole sul comportamento del condannato, viene spontaneo domandarsi, nel caso concreto, quali segnali sono stati ricercati, e riscontrati, per ipotizzare che Genco si sarebbe fermato.
E ancora. Ammettiamo che la sospensione condizionale fosse giusta. Davvero non era possibile accertare la pericolosità sociale di questo giovanotto? Adesso è chiarissima. Dallo stesso articolo di Repubblica: «Per il sostituto procuratore Maria Rita Pantani Genco è “un soggetto socialmente altamente pericoloso”. La Procura formula l’ipotesi di omicidio con tre aggravanti: futili motivi, minorata difesa della vittima e recidiva stalking. Tra i capi d’imputazione, oltre alla violenza sessuale, vi sono anche porto abusivo d’armi, violazione di domicilio e appropriazione indebita delle chiavi riguardo al fatto che Genco, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, è entrato in casa della vittima per prendere il coltello utilizzato poi per ammazzare Juana Cecilia». È inquietante pensare che questo livello di pericolosità non fosse rilevabile. E qualora lo fosse stato, sarebbero state possibili misure ulteriori, quali il sempre citato braccialetto elettronico o l’obbligo di vivere e restare – ad esempio – fuori dall’Emilia-Romagna?
Altro ancora dovrebbe occuparci. Mirko Genco è un orfano di femminicidio. La madre, Alessia Dalla Pia, era stata uccisa dall’ex compagno alcuni anni or sono: picchiata brutalmente, annegata e poi lasciata nell’androne del palazzo. Dopo il crimine il ragazzo era stato accolto dai nonni materni ma, a quanto è dato capire, aveva trascorso parte della sua adolescenza in una comunità per poi tornare dalla nonna dopo i 18. La signora Daniela rievoca quel periodo: «Mirko non parlava mai della mamma. Diceva solo che voleva andare in Tunisia e ammazzare l’uomo che aveva ucciso sua madre. ‘Prima o poi lo beccherò’, diceva”. Invece la vita è andata in un altro modo: “Mia figlia era la vittima. Ora mio nipote è il carnefice”» (Repubblica, 25.11.21).
Mi permetto di dire che un proposito omicida non dovrebbe lasciarci tranquilli nemmeno quando è rivolto contro il cattivo. In altre parole, il fatto che questo ragazzo si proponesse di uccidere l’assassino della madre e non riuscisse a parlare di lei, a dare spazio alla propria mancanza dolorosa, avrebbe già potuto accendere un segnale di pericolo. Avrebbe potuto, e non sappiamo se sia successo, se la sofferenza di Mirko sia stata accolta e rielaborata, oltre che nel rapporto con i nonni travolti quanto lui dal lutto, anche nel confronto con uno specialista per affrontare il rischio di identificarsi nell’aggressore, come poi è avvenuto.
Sono passata vicino a più di un caso di femminicidio e non è davvero la prima volta che ho notizia di comportamenti fuori controllo da parte degli orfani. Quando sono bambini muovono compassione, tenerezza, certo. Poi gli anni passano e ciò che non è stato trattato al momento giusto ha maggiori possibilità di ritorcersi contro altre persone. Parlo di maggiori possibilità, non è certo che accada, né che – poniamo – con una buona psicoterapia si scongiuri questo rischio. Niente è certo, ma siamo chiamati, credo, nel nostro sistema sanitario e di sicurezza – oltre che di giustizia – a fare il meglio che è in nostro potere.
Dopotutto nel caso del covid il vaccino non esclude totalmente il contagio o la replicazione del virus ma li limita di gran lunga, e già per questo molti di noi, e anch’io, lo riteniamo utile e opportuno. Altrettanto si può dire per la violenza estrema: una presa in carico adeguata, competente e protratta per il tempo necessario riduce di molto il rischio che quel dolore indigeribile si rovesci contro la vita propria o di altri. Non è una panacea, ma almeno è una strada possibile e promettente.
Io non lo so se per Mirko Genco un lavoro di questo tipo c’è mai stato. La legge per gli orfani di femminicidio era di là da venire, i servizi territoriali erano meno esperti, non sappiamo se sia stato aiutato, o se lui sia stato disponibile a un aiuto. Già all’epoca era un ragazzo grande, capace di decidere per sé. La brusca interruzione del percorso con il centro per uomini maltrattanti e le poche dichiarazioni della nonna fanno pensare che si sia tenuto alla larga dall’avvicinarsi alla morte della madre per maneggiare l’accaduto dal punto di vista emotivo. È pura supposizione e tuttavia ci penso: chissà se un buon percorso avrebbe potuto aiutarlo. A uscire dalla condizione di vittima, prima di tutto, per tenersi lontano anche da quella di assassino.
Ora nonna Daniela chiede perdono alla madre di Juana, e si risponde da sola dicendo a se stessa che perdono non c’è. Si mette nei panni dell’altra fin troppo facilmente, purtroppo.
Probabilmente vaneggio, ma ho per entrambe la speranza che possano, chissà, un giorno incontrarsi, e il ponte della sofferenza condivisa sia, questo sì, una via concreta per fermare la violenza.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta