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Che le mutilazioni genitali femminili (MGF) possano essere sradicate da qui al 2030 rimarrà un buon proposito dell’Agenda 2030 e poco più.

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Nei 25 Paesi in cui sono più diffuse, dal 2015 al 2030 si calcola che le mutilazioni verranno inflitte a circa 68 milioni di bambine. Nel solo 2022 si stima che le bambine a rischio siano 4,2 milioni.

Il 6 febbraio ricorreva la “Giornata internazionale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili” indetta dall’ONU a partire dal 2012, ed è stato facile reperire notizie aggiornate sulla dimensione del fenomeno, il suo andamento e i progetti in atto per contrastarlo.

Secondo le Nazioni Unite, nei 30 Paesi in cui si praticano MGF, le bambine che le subiscono sono passate da una su due nel 2000 a una su tre nel 2017, ma la situazione sta peggiorando a causa del covid che ha imposto la chiusura delle scuole anche lì dove le mutilazioni sono più diffuse, isolando bambine e ragazze nella famiglia d’origine o nel cerchio più ristretto della comunità senza la possibilità – per loro e per i genitori – di ricevere un’educazione sanitaria, un’informazione mirata, in grado di insinuare qualche dubbio su ciò che molti erroneamente ritengono un precetto religioso.

La messa al bando di questa pratica nelle legislazioni di tanti paesi – e, per l’Unione Africana, fin dal 2013 con il Protocollo di Mobutu, che integra la Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli – viene facilmente aggirata specialmente nei piccoli centri. Eppure qualcosa sta cambiando, lontano e vicino a noi. Rimango nei paraggi per oggi, riservando a un prossimo articolo uno sguardo ai segnali di speranza che emergono nei paesi maggiormente interessati.

Il Parlamento Europeo stima che nel nostro continente vivano circa 600mila donne vittime di MGF e 180mila a rischio di subirle. L’Italia non è esente. Nel 2019 l’Università Milano Bicocca stimava la presenza nel nostro paese di oltre 87.000 donne mutilate. Più della metà proviene da Nigeria, Egitto e Senegal. Il 9% del totale è composto da minorenni. Le bambine più a rischio sono quelle somale e sudanesi.

La nostra legislazione è molto netta (ne ho parlato su queste pagine un paio d’anni fa) ma non basta da sola a smantellare un fenomeno che richiede un lavoro soprattutto culturale. Proprio per questo il progetto europeo Chain attivo in Germania, Francia, Italia, Spagna e Belgio (il partner italiano è ActionAid per la città di Milano) prevede formazione e sensibilizzazione agli operatori sociali e sanitari, ai leader delle comunità straniere e alla comunità in genere, fino alla definizione di procedure operative per prevenire le MGF, rilevare i casi di bambine a rischio, rispondere al loro bisogno di protezione.

Senza un’azione corale e convinta è impossibile contrastare un fenomeno culturalmente radicato. La mediatrice e antropologa Maryan Ismail, in un’intervista di estremo interesse sulle radici culturali delle violenze di gruppo accadute a Milano a Capodanno, tocca incidentalmente anche il tema delle MGF. «Dal 2006 il rischio che delle bambine possano subire la mutilazione genitale femminile in Italia è davvero diminuito, perché abbiamo istruito le madri sulle leggi che sono oggi promosse nei nostri Paesi. C’è il protocollo di Mobutu che è un protocollo africano, interstatale, trasversale ai Paesi africani dove si ribadisce che il corpo della donna è intangibile. Quindi abbiamo adottato un approccio che non mette in discussione il valore della cultura a livello personale, ma che fa comunque progredire la posizione di queste donne e di queste famiglie nella società».

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Il rischio di legittimare le MGF per chi le ha ricevute come norma sociale consolidata è molto forte. Nel lavoro dei mediatori, ma anche degli operatori sanitari, rientra il compito di decostruire questa normalizzazione per spezzare la catena intergenerazionale e aiutare le donne a non sottoporre le figlie allo stesso trattamento.

Sul sito dell’Asl di Ferrara, la città dove vivo, leggo che il Servizio Salute Donna ha incontrato negli anni tante donne vittime di mutilazioni genitali femminili provenienti prevalentemente dalla Nigeria e, in misura minore, dalla Somalia e dall’Egitto. Un’ostetrica, Doina Nedea, parla della delicatezza che occorre per svolgere la visita ginecologica, più complessa e dolorosa, e per accogliere la donna nella sua interezza. «Il primo passo è accertare il tipo di mutilazione o infibulazione subita, il grado di consapevolezza che la donna ha riguardo alla MGF e la presenza di qualsiasi problema e conseguenza di natura psicologica, sessuale e fisica. Ogni paese ha le sue tradizioni, sia sul tipo di modificazione che sull’età in cui è necessario farla. Molte donne non sanno di essere state mutilate perché erano troppo piccole e quindi non ricordano. Chi è stata ‘operata’ da adolescente, compensa il trauma con la grande festa che viene organizzata subito dopo, per ricevere regali e celebrare l’entrata in comunità».

Negli ultimi giorni ha ribadito il suo impegno l’Unione Europea con una dichiarazione molto netta che promette una iniziativa legislativa specifica per porre fine a ogni atto di violenza contro le donne, le ragazze e le bambine, incluse le MGF. Inizia così:

Le mutilazioni genitali femminili sono un reato e una violazione dei diritti umani delle donne. È nostro dovere fermarle. Non esistono giustificazioni per una pratica così aberrante. Ci sono conseguenze negative devastanti che incidono sulla salute fisica e mentale delle donne, delle ragazze e delle bambine, tra cui infezioni, infertilità e dolore cronico. Questa pratica mette a rischio la vita e il benessere di migliaia di donne, ragazze e bambine e, in certi casi, può causarne addirittura la morte. Sebbene le mutilazioni genitali femminili siano state ormai abbandonate da molte comunità e siano diminuite grazie al graduale cambiamento delle norme culturali, la pandemia di COVID-19 ha rallentato i progressi verso una loro definitiva eliminazione. In periodi di confinamento, mantenere la possibilità di accedere a servizi di prevenzione, protezione e assistenza rimane più importante che mai. Porre fine a tutte le forme di violenza di genere, comprese le mutilazioni genitali femminili, è al centro delle politiche dell’UE in materia di uguaglianza”.

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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