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Elena Dal Pozzo, la bambina di 5 anni che la giovane madre ha confessato di avere ucciso, è soltanto l’ultima di una lunga serie. A quanto si legge in cronaca la situazione è molto complessa: se davvero la madre ha agito per dispetto verso l’ex partner, mi sorprende che il papà non sia presentato come vittima indiretta, o almeno non tanto quanto accade alle madri quando sono i padri a uccidere i figli per gli stessi motivi; se davvero i familiari sapevano che la madre picchiava duramente la figlia, avrebbero fatto bene a chiedere aiuto, ecc.. Poi ci sono i social. Il linciaggio è uno sfogo che non aiuta a capire.

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Lo so che la realtà è ancora più drammatica e complicata. Fatti recenti ci dicono di una violenza estrema nei rapporti interpersonali a cui è difficile trovare una direzione. Penso al moltiplicarsi dei femminicidi, all’adolescente di Napoli che ha ucciso la madre pochi giorni fa, alla baby-sitter di Soliera che ha scaraventato dalla finestra un bambino di 13 mesi… ma torno sui figlicidi, non sembrandomi utile parlare di tutto, tutto insieme.

Eures – Ricerche economiche e sociali, che tiene il conto, riporta che in Italia, in media, quasi ogni due settimane muore un figlio per mano dei genitori. Dal 2010 a oggi sono morti 286 tra bambini e bambine, ragazzi e ragazze. Il 55,6% (149) aveva meno di 12 anni, con una fascia a rischio nei primi cinque anni di vita (39,7% del totale). Molte di meno le vittime adolescenti (9,6%) e poi ci sono quelle maggiorenni, spesso uccise da genitori anziani sovrastati da un carico di cura per la disabilità o la tossicodipendenza del giovane.

Nel 64,2% dei casi l’autore del gesto è il padre (172 figli uccisi dal 2010) ma nella fascia 0-5 anni la prevalenza è invece materna (61 casi, 57,5% sul totale, contro 45 commessi dai padri), un dato che diventa schiacciante (35 su un totale di 39) quando il bambino è neonato e i piccoli sono affidati quasi esclusivamente alle cure della madre. Nell’età della massima fragilità e innocenza, incapacità di difendersi, quando maggiore è la dipendenza dagli adulti e la fiducia in loro, è inconcepibile collocare una morte violenta.

In questi giorni, commentando l’uccisione della piccola Elena, abbiamo letto diverse categorizzazioni in base alla ragione che può spingere un genitore a uccidere. C’è chi è preda di una psicopatologia o di una dipendenza, chi agisce per ripicca verso l’altro genitore del bambino, chi ritiene di “liberare dal male” il proprio figlio (omicidio “altruistico”), chi cerca di liberarsi di una nascita indesiderata, chi provoca la morte come conseguenza non voluta mentre cerca di calmare il pianto del figlio (sindrome del bambino scosso).

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È rilevato poi che esistono dei fattori di rischio, nessuno dei quali decisivo in sé ma che possono agire da detonatori specialmente combinati insieme: la mancanza di relazioni sociali, l’estremo disagio socioeconomico, la giovane età del genitore, lo scarso livello di istruzione e, a livello psicologico, depressione, stress, gravidanza non voluta.

Di seguito, non è difficile credere che queste morti siano la punta più estrema e clamorosa di una violenza familiare molto più diffusa, che tocca tanti altri bambini e bambine di cui non sappiamo, perché non rientrano in questo conteggio, ma che subiscono relazioni tossiche sebbene non letali.

Se tante possono essere le spinte a far male, una è la domanda di fondo che bisogna porsi: perché si continua a fare così poco per evitare queste infanzie negate?

Quello che manca in Italia lo sappiamo già, viene ripetuto da decenni da quanti operano nella tutela dei minori e ci viene richiesto anche a livello sovranazionale: un osservatorio sulla violenza all’infanzia; una rete di servizi per la tutela dei bambini e per il supporto alle famiglie realmente funzionante da Bolzano a Siracusa che possa contare su un giusto numero di operatori, formati, supervisionati e possibilmente non sfiduciati o minacciati a ogni respiro; interventi di home visiting nei primi mesi di vita dei bambini per cogliere e supportare precocemente le situazioni a rischio, spezzare le solitudini, accogliere le difficoltà; capacità di rilevazione e di segnalazione nei servizi e nelle scuole, per accorgersi dei bambini che soffrono ingiustamente e non possono difendersi da soli.

Prima di tutto questo occorrerebbe forse un cambio culturale profondo, una minore schizofrenia. Potrei scommettere che tra chi ha subissato di insulti la madre di Elena Dal Pozzo c’è anche qualcuno che scatena lo stesso livore verso i servizi sociali o la giustizia minorile a ogni notizia di un allontanamento di un bambino dai propri genitori. Eppure per la piccola Elena e per tutti gli altri prima di lei un allontanamento sarebbe stato salvifico. Magari temporaneo, magari in urgenza, magari restando in ambito familiare se accertata l’idoneità dell’altro genitore, o dei nonni, di altri parenti.

È proprio questo il passaggio che sembra difficile: riconoscere che i bambini sono persone, non proprietà, e ammettere che i genitori purtroppo non sono sempre, e non sono per tutti i bambini, figure capaci di aiutarli a crescere. Ogni due settimane per un bambino ne va della vita, ma per tanti altri sono in gioco la salute fisica e l’equilibrio psicologico, e in prospettiva la possibilità che rinnovino su altri – incominciando dai figli che avranno – la violenza che hanno subito.

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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