Non eravamo che ragazzine. Alcune tra noi che seguivano un corso di teatro ci raccontavano il trattamento ricevuto da un maestro particolarmente severo per arrivare al nocciolo di un personaggio o anche solo di un gesto, e ci domandavamo insieme se quella forzatura non fosse strada obbligata per arrivare alla bellezza.
Ci chiedevamo, cioè, se un certo tipo di dileggio, di obbligo, di pressione e forse proprio di violenza psicologica – con la sofferenza che ne conseguiva – non appartenessero allo strumentario concesso legittimamente al maestro per ottenere il meglio dall’allievo – e se dall’altra parte chi impara dovesse accettare di sottoporsi a qualsivoglia sottomissione e rinunciare a se stesso per farsi pervadere dal sacro fuoco.
Ci ripenso mentre si moltiplicano le denunce di ragazze che hanno lasciato la ginnastica ritmica dopo averla praticata a livelli agonistici di rilievo nazionale e internazionale. A distanza di tempo, insieme all’amore e alla nostalgia che ancora si legge sui loro volti quando rammentano la pratica sportiva, esprimono l’amarezza per i bocconi che sono state costrette a ingoiare. Diverse sarebbero state sottoposte a pratiche dietetiche sconcertanti, a umiliazioni e esclusioni, con un vasto correlato di depressione, disturbi alimentari, squilibri psicofisici che si sono trascinati anche negli anni successivi.
Le giovani attrici amiche mie erano forse lontane parenti delle ginnaste ma mi accade di accomunarle per l’interrogativo comune che attraversa i loro percorsi. È accettabile accompagnare, ma a volte chiedere o perfino pretendere da una persona che sviluppi ed esprima all’ennesima potenza i propri talenti, anche quando questo dovesse costarle la serenità?
Credo che secondo certi adulti la risposta sia affermativa. Il perfezionismo, l’orgoglio, la rivalsa, il bisogno di dimostrare, la resistenza al dolore e al sacrificio, persino il desiderio di vendetta sono motori potenti. Quei maestri li ritengono probabilmente buoni acceleratori. La morale è sempre la stessa: tutto ciò che distoglie la tua attenzione o rallenta le tue performance allontana l’obiettivo, pertanto deve essere eliminato. Forgiati dall’umiliazione e dalla resistenza al dolore, i fanciulli imparerebbero davvero a dominare il corpo, a svelare l’anima.
Piccolo particolare: quella disciplina è imposta a tutti gli adepti ma non tutti diventano campioni ed è, per chi non ce la fa, una beffa oltre al danno, una sconfitta che rende ancora più salato il conto che si è stati costretti a pagare. Al contempo però, è l’evidenza di quanto non basti un trattamento severo per costruire un campione.
Le denunce delle ginnaste citano argomenti tipicamente femminili – la dieta, l’armonia delle figure – ma sono convinta si troverebbero dei corrispettivi se il discorso si aprisse negli spogliatoi di sport tendenzialmente maschili, o in altri luoghi di addestramento soprattutto virili come certe caserme. Né, tra le donne, le atlete rappresentano un fenomeno isolato. Di tanto in tanto sappiamo di modelle che lamentano di aver subito pratiche disumane mosse dalla medesima regola: sii strumento adatto per il risultato.
Ancora nell’agosto di quest’anno su Fanpage si legge della modella Karoline Bjørnelykke, vittima di bullismo nell’infanzia perché più alta e grossa delle coetanee, che ha affrontato l’anoressia, ha sfilato sulle passerelle più prestigiose e infine si è allontanata dal mondo della moda denunciandone le ossessioni. “Ricordo di essere stata misurata per un lavoro: mi è stato detto che anche le mie dita erano troppo grasse e che avevo bisogno di perdere peso intorno ai fianchi. Mi ha tolto la scintilla e l’entusiasmo ed è stato davvero dannoso per la mia salute mentale”, ha raccontato Karoline. “Ho iniziato a rendermi conto di quanto fosse tutto stupido e alla fine sono volata a casa perché ne avevo appena avuto abbastanza”.
Il fatto che le denunce giungano adesso e non dieci anni or sono mi sembra riveli un mutamento culturale profondo, io credo anche grazie a un’educazione familiare che nella gran parte dei casi mette il benessere dei ragazzi e delle ragazze in primo piano rispetto ai risultati scolastici, sportivi o d’altro tipo. In armonia con questo approccio, “Se le medaglie devono arrivare con un torto alle ginnaste ci accontentiamo che ne arrivino di meno, ma che facciamo un lavoro corretto, su questo non si discute”, ha affermato in questi giorni il consigliere della Federazione ginnastica d’Italia, Francesco Muss. Una posizione che non sposta il presupposto ma detta un limite: siamo ancora d’accordo che solo attraverso quella disciplina si raggiungono i massimi livelli ma, poiché quella disciplina va contro il benessere della persona, accettiamo di rinunciare ai primo posti in classifica pur di proteggere la serenità personale.
Sottolinea Michele Serra: “non stiamo parlando solo dello sport. Anche lo spirito aziendale, anche il mondo del lavoro, anche l’intera società ragiona in funzione del risultato. O vinci, o sei nessuno. Non è più così. Per moltitudini di ragazzi (…) il successo non è più il solo paradigma dominante. Più del successo contano la percezione di sentirsi rispettati e la voglia di vivere bene”.
È già un passo. Quello ulteriore è riconoscere acceleratori diversi – potremmo dire, nonviolenti – in grado di incoraggiare l’espressione di sé facendo leva su esperienze non mortificanti, come un rapporto rispettoso e forte con il proprio allenatore o lo spirito di gruppo negli sport di squadra.
Torno alla mia adolescenza e lo ammetto a malincuore, nell’eccesso di romanticismo pensavamo che un certo grado di macerazione interiore fosse necessario per arrivare in profondità. Ci convincevamo che Emily Dickinson non avrebbe lasciato versi sublimi senza la reclusione e che, in definitiva, l’arte e la bellezza avessero il diritto di governare i destini e la quotidianità dei prescelti, e questi l’obbligo di farsi mero strumento per distillare a nome dei comuni mortali l’indicibile.
Tra noi ragazzine era un’ingenuità. Ricordo di aver sollevato l’argomento nel dialogo con amici artisti che fanno del teatro o della musica o della scrittura il loro impegno quotidiano scoprendo come l’autoflagellazione non sia una via obbligata, né di per sé promessa di splendore. Ci sono anche altre strade per conoscere se stessi, e tanto altro si deve allo studio umile e costante, meno eroico ma più produttivo che attraversare il fuoco.
Che poi non serve andarsela a cercare, la sofferenza ci raggiunge e scava le nostre esistenze senza invito. L’artista è chi sa trasformarla, e con essa impasta la gioia, per mettersi in comunione con gli altri.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta