"Ci sono leve che possono sollevare mondi. Ci sono parole che possono aprire cuori. Ci sono bambini che possono cambiare una città”.
Lo ha scritto su Facebook il 19 scorso Marco Zavagli, giornalista ironico e sensibile, direttore di Estense.com. Mi sono detta: d’accordo sulle leve, sulle parole e anche sui bambini, ma quale storia sta raccontando?
È un’azione nonviolenta in piena regola. E, come ci spiegano gli esperti, l’azione nonviolenta può applicarsi a ogni forma di stortura e discriminazione per provare a cambiarla. A chi vuole iniziare non serve possedere muscoli, armi, denaro o altre forme di coercizione perché l’azione nonviolenta non è una coercizione. Occorre piuttosto essere pronti a “farsi centro”, c’insegna Aldo Capitini, meglio se con il supporto di altri. E lei c’è riuscita.
“Lei è Agata”, scrive ancora Zavagli. “Ha dieci anni. Dieci anni passati su una carrozzina. Quando ha visto, in un parchetto cittadino, una altalena per disabili ha scoperto che anche lei può giocare come tutti i bambini. Da quel pensiero ne è nato un altro: anche lei può fare una passeggiata come tutti i bambini. E un altro ancora: anche lei poteva entrare in una gelateria per prendere un cono con cioccolata e panna come tutti i bambini, senza dover essere presa in braccio. Ma molte cose nella sua città non sono così semplici come i suoi pensieri. Non tutti i parchi sono attrezzati. Non tutti i marciapiedi sono valicabili. Non tutti i negozi hanno una pedana per permetterle di entrare. E allora ecco il suo pensiero più grande: coinvolgere l’intero quartiere in una passeggiata. E di passeggiata in passeggiata i negozi di vicinato si sono attrezzati. Altri lo faranno. Altri scopriranno come è semplice essere accoglienti”.
Il 19 scorso a Ferrara si è tenuta la prima uscita collettiva in cui la bimba è stata accompagnata da un centinaio di persone. Altre escursioni tutte sue l’hanno preceduta. Il sito Le passeggiate di Agata e i profili Facebook o Instagram le raccontano. Il 6 novembre è andata al bar con Giulia a bere un succo di frutta. Il breve video ce la mostra per mano all’amica fino alla porta del bar, inaccessibile per pochi centimetri. È sufficiente una piccola pedana di gomma, rimovibile, per ovviare il problema. Stessa cosa il 9 novembre quando è andata a prendere il pane con la cuginetta Anita di 12 anni. Mentre leggo mi chiedo quanti coetanei vengano mandati dai genitori a fare piccoli acquisti nelle botteghe di vicinato o non siano, più spesso, trasportati nelle spese degli adulti. Si aprirebbe un discorso sull’autonomia, sul fare esperienza, sulla fiducia nel prossimo, nel traffico e nel luogo in cui si vive che con la violenza di una società – e la nonviolenza di rimando – qualche attinenza ce l’ha, ma passo oltre e vi parlo ancora di questa bambina nata prematura nel gennaio 2012.
Proprio pochi giorni fa, il 17 novembre, in più di cento Paesi tra cui il nostro è stato celebrato il World Prematurity Day (Giornata mondiale della prematurità). In Italia nascono ogni anno oltre 25.000 prematuri (il 6,4% del totale, illustra il report del Ministero della Salute), cioè bambini che vengono al mondo prima della 37a settimana di gestazione. Di questi, il 75,6% è rappresentato da parti pre-termine, dalla 34a alla 36a settimana gestazionale. Agata era nel restante 24,4% cioè tra i precocissimi. Per questo è stata un mese in terapia intensiva durante il quale le hanno rilevato una paralisi cerebrale infantile che nel suo caso ha comportato soprattutto difficoltà motorie.
La mamma, Anna Baldoni, è una pedagogista che si occupa di diritti dei bambini da ben prima di diventare mamma. Nella pagina da lei curata sul sito della figlia (Agata deve averle fatto una concessione…) spiega come i papà e le mamme dei bambini con disabilità svolgano ogni giorno due lavori. “I genitori in generale vivono questa condizione quando hanno i bambini piccoli, poi tendono a scordarsi e dimenticare quegli anni in cui ogni parte del corpo e della mente sono rivolti a far sopravvivere e rendere felice quel piccolo bambino/bambina amato/a in un modo così intenso e che dipende da te completamente. Se invece sei genitore e caregiver e tuo figlio ha una disabilità grave, la condizione che vivi nei primi anni di vita si prolunga di alcuni, molti anni e a volte per sempre e devi dunque convivere con questi due ruoli che presto prendono il sopravvento su tutto, è un lavoro che si svolge senza sosta in aggiunta al proprio lavoro e a quello di genitore”.
Per questo ci vogliono gli altri: i professionisti della salute e della cura, gli amici, la comunità. Ci vuole un’ipotesi di mondo che si preoccupi di accogliere e riconoscere i diritti di ciascuno.
“Nel primo anno di vita di Agata abbiamo avuto una babysitter austriaca che si chiama Julia”, ricorda. “Ci raccontava che dove vive lei ci sono servizi per far fare una notte fuori ai genitori dei bimbi piccolissimi che magari non dormono una notte intera da mesi. Julia era bravissima, bella e amorevole e si prendeva cura anche di noi. Ci diceva ‘andate, ci penso io’ e noi (io e Stefano) eravamo tranquilli e potevamo parlare, passeggiare, fare quello che fanno gli altri, anche dormire fuori. Più tardi abbiamo trovato un’altra Giulia, italiana, educatrice (…)”. Abbinamenti fortunati che dovrebbero essere favoriti come esercizio di un diritto.
Il progetto delle passeggiate di quartiere per rilevare le barriere architettoniche e favorirne l’abbattimento nasce dal dialogo familiare con questa bambina sorridente e caparbia. “Dagli 8 anni in poi (ma anche prima) abbiamo cominciato a parlare seriamente (e serenamente) di disabilità rispondendo alle sue domande sempre più insistenti, abbiamo poi parlato di diritti e abbiamo condiviso con Agata le difficoltà che comportava fare le cose normali, cercando di spiegarci il perché. Ne abbiamo discusso insieme. La consapevolezza che avremmo dovuto fare qualche cosa è diventata il suo mantra e per oltre un anno, tutte le volte che ci trovavamo di fronte a una soglia inaccessibile, un ascensore troppo stretto oppure un’attività inaccessibile per lei o altri bambini, lei ci diceva: dobbiamo fare qualcosa”.
Da qui le passeggiate, “qualcosa in cui Agata potesse partecipare attivamente, da cittadina, ed essere la protagonista senza forzature”, ma un’opportunità anche per loro genitori che avvertivano “la necessità di uscire allo scoperto e mettere a disposizione ciò che abbiamo imparato in questi 10 anni investendo tutto il nostro tempo e le nostre energie”. C’è il desiderio di “fare qualcosa per la comunità” e l’intento pedagogico di “insegnare ad Agata attraverso un’azione concreta che per cambiare le cose è necessario impegnarsi e metterci la faccia”.
A me sembrano un’ottima piattaforma da sottoscrivere subito. Contiene ottime ragioni per cercare un cambiamento che migliori la propria vita, quella degli altri e la società nel suo insieme, un modo per insegnare quel che si è imparato e per apprendere ancora. La coraggiosa capacità dei bambini di riconoscere le ingiustizie, volerle risolvere e impegnarsi per farlo, e l’attenzione di adulti che li prendono sul serio e si mettono al loro fianco, sono ingredienti che non dovrebbero mancarci mai.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta