Anche quest’anno ho avuto l’opportunità di svolgere qualche ora di lezione all’Università di Parma sugli aspetti psicologici e sociali della violenza di genere. L’occasione è un laboratorio interdisciplinare aperto a tutti i corsi di laurea, un tassello in più per diffondere quei valori di rispetto, riconoscimento dell’altro, identificazione della violenza, empatia… di cui tanto si avverte la mancanza.
Il corso non ha obbligo di frequenza. Alla prima lezione, il 20 novembre scorso, si collega una trentina di studenti. Maschi: uno. Non sono sorpresa ma dispiaciuta sì.
L’omicidio di Giulia Cecchettin è una ferita aperta, difficile parlare d’altro. Scelgo di ribaltare il percorso che avevo immaginato e proietto una sua fotografia chiedendo di esprimere per iscritto che cosa provano. Sono una forza potente, le emozioni. Danno intensità ai nostri discorsi, ai nostri comportamenti. Spingono al cambiamento quando ci tengono sulle spine, ci rinchiudono in noi stessi se ci pare di non trovare una via.
Le ragazze al principio sono incerte, forse abituate a una lezione frontale, poi si fanno più partecipi comprendendo che quello è uno spazio a loro disposizione. Il laboratorio si fa insieme. Anche l’unico ragazzo in collegamento si confronta con passione. Ne scaturisce un dibattito partecipato e maturo.
Il pensiero di Giulia trasmette tanta sofferenza, espressa come tristezza, dolore e dispiacere (lo dicono in 15). Le ragazze sono coetanee di Giulia, per loro è più che mai spontaneo mettersi nei suoi panni. Potrà succedere a me o a qualcuna che conosco? Capiterà anche a me, devo aver paura anche io? E poi: Come mai è successo? Non doveva essere un “bravo ragazzo”? Dobbiamo smettere di fidarci anche dei bravi ragazzi?
Quando un “bravo ragazzo” arriva a tanto lo spaesamento è totale. Non vale più nemmeno stare attenti al lupo, evitare le caramelle degli sconosciuti… Come ti proteggi, se pensi che il tuo innamorato potrebbe diventare il tuo assassino? Davvero la violenza è un mostro che può impossessarsi di chiunque e stravolgerne i gesti, i comportamenti?
Invito a riflettere sulla possibilità di riconoscere i segnali della violenza. Secondo le ragazze sì, i segnali ci sono, ma Molto spesso sono così piccoli che si camuffano con comportamenti comuni, oppure vengono ammessi come manifestazioni di gelosia, «lui tiene a me», e invece sono segnali di possesso. Magari si viene anche manipolati e ci se ne accorge dopo. L’unico ragazzo della classe indica la violenza come processo mentale che purtroppo è guidato dall’istinto, è guidato in modo menzognero da pensieri elaborati in modo malsano. Al 90% questi comportamenti sono visibili ma la stessa relazione ne cela i segnali. E poi ci sono individui abili manipolatori che riescono a nascondere il proprio stato emotivo.
Proietto i dati di un’indagine recentissima (Ipsos, 2023) che ha riguardato la violenza di genere tra i giovani interpellando un campione di 18-29 anni. Per 4 su 5 se davvero una donna non vuole avere un rapporto sessuale può sottrarsi, come dire che lo stupro non esiste, e 1 su 5 ritiene che la violenza nasca dalla provocazione della donna. Anche gli ultimi dati Istat confermano che il controllo del cellulare o dei social è legittimato da un’ampia fascia di popolazione soprattutto giovanile. In aula una studentessa afferma che invece non si dovrebbe, e poi: Lo faccio anch’io con il mio ragazzo di guardargli il cellulare, mi sembra naturale; non so perché ma non mi fa lo stesso effetto di quando è un ragazzo a controllare la fidanzata.
Le ragazze sono impaurite e preoccupate pensando di potersi ritrovare coinvolte in una relazione a rischio. Respiro la loro rabbia e il senso di ingiustizia per la vita spezzata di Giulia e di tante altre, per come un accettabile senso di sicurezza si è infranto con questo femminicidio più che con tanti altri. Perché pensando a Giulia si rivivono i giorni trascorsi ad aspettarla, le speranze cancellate dal ritrovamento del corpo, la commozione per la giovane età della ragazza, l’efferatezza con cui è stata uccisa. Tra gli allievi, chi si concentra sull’atto in sé riporta disgusto, ribrezzo. Pensando a Filippo, si domandano Come può un ragazzo arrivare a fare una cosa del genere? Cosa pensava si ottenere? Che finale aveva immaginato uccidendola e scappando?
È un tarlo il pensiero che forse la morte di Giulia si poteva evitare. Un’allieva si chiede Perché i genitori di Filippo non hanno colto i segnali di possessione, controllo e instabilità emotiva del figlio?, non per giudicare ma per capire. Una compagna aggiunge Un mio amico potrà mai pensare di fare una cosa del genere?, ed è inquieta all’idea che chiunque di noi potrebbe essere uno spettatore inconsapevole che non riconosce i segnali e non protegge la donna, pur volendolo fare.
La rabbia e il senso di ingiustizia non trovano un’espressione attiva. Qualche giorno dopo, nelle manifestazioni del 25 Novembre, forse questi giovani saranno stati in piazza, non lo so. Per il momento in diversi vivono sentimenti di rassegnazione, sgomento, sconforto, delusione. Questo scoraggiamento non è un fatto privato: In che società viviamo? Perché ancora nel 2023 succedono queste cose?
Secondo una ragazza il sistema di protezione contro la violenza di genere è debole e non supportato, vista la negazione sistematica che viviamo ogni giorno sulla nostra pelle da parte di persone che non ci provano neanche a immedesimarsi. Per un’altra allieva si parla quando ormai è troppo tardi e purtroppo, appunto, si parla tanto ma non si agisce granché… perché ormai ne succedono talmente tante che siamo quasi diventati “abituati” a questo tipo di avvenimenti.
La svolta che invocano risiede nell’educazione a esternare le emozioni negative in modo sano, a esserne consapevoli e a non farsi travolgere.
Il richiamo forte è rivolto agli uomini a cui chiedono presenza e sostegno. Perché ho visto centinaia di post, commenti, considerazioni a supporto del grande argomento del femminicidio da parte di donne, e forse uno o due pareri da uomini? Perché sembriamo le uniche ad interessarsi di questo?
La sistematicità della violenza di genere mi fa paura e mi fa rabbia vedere molti uomini che invece di informarsi e riconoscere il problema si deresponsabilizzano dicendo “non tutti gli uomini uccidono”, “non bisogna fare di tutta l’erba un fascio”.
Le tante piazze del 25 Novembre scorso hanno dato una prima risposta. Gli uomini c’erano, come le famiglie e i loro bambini. Forse un cambio di prospettiva può avvenire.
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta