L’estate 2020 sta finendo e l’autunno, con le sue incognite, sta per iniziare.
Da un lato, la speranza, con l’inizio del nuovo anno scolastico, si è riaccesa; dall’altro lato, il timore della ripresa dei contagi e di quel che accadrà quando cesseranno le garanzie previste dalla legislazione di emergenza, contribuiscono a alimentare un clima di incertezza e un senso di precarietà.
Il riverbero della condizione emergenziale sulle famiglie, in particolare sui nuclei familiari più fragili per ragioni economiche, sociali, sanitarie (o per tutte queste ragioni), non ha tardato a farsi sentire, con un aumento del disagio nelle relazioni. Questo si è manifestato con diverse modalità: dalla crescita dei casi di maltrattamento in famiglia, all’accentuazione del disagio psichico, con esposizione dei soggetti più deboli a situazioni di pregiudizio.
Il tutto in una situazione in cui, a causa del lockdown, i presidi a tutela della famiglia e dei bambini, in primis la scuola, ma anche le varie agenzie sociali come le parrocchie, le associazioni sportive e i Servizi di Territorio (sociali, educativi, psicologici, di NPI, nonché sanitari in genere), hanno sostanzialmente cessato di operare, se non con modalità “da remoto”. Tali modalità, certamente, vengono incontro alla necessità di non lasciare del tutto scoperte aree di fondamentale importanza per il Paese – come l’istruzione, l’educazione e la protezione dell’infanzia – ma sicuramente non possono sostituire la presenza, il senso di comunità, la condivisione e la percezione diretta di eventuali problematiche.
Nel corso dell’estate, peraltro, la cronaca ha segnalato il caso di due bambini, in tenerissima età, morti in maniera traumatica. Si è appreso che le famiglie di entrambi i minori erano conosciute dai Servizi sociali e sanitari. Eppure la situazione di evidente pregiudizio in cui i bambini versavano non aveva fatto scattare quel tipo di preoccupazione idonea a mettere in atto interventi di tutela e protezione che, in determinate circostanze, devono avere riguardo esclusivamente al minore coinvolto.
In questo periodo, poi, è molto alta l’attenzione dell’opinione pubblica sugli effetti dell’allontanamento dei minori dal loro nucleo familiare, in specie quando l’allontanamento viene attuato dai Servizi per l’infanzia ai sensi dell’art. 403 Cod. Civ.
La risonanza emotiva delle ragioni dei genitori dei bambini coinvolti, amplificata dai media, specialmente dopo l’avvio di inchieste giudiziarie – che a breve porteranno a giudizio i soggetti ritenuti responsabili di allontanamenti non giustificati da motivi di evidente pregiudizio – contribuisce ad alimentare un clima di diffidenza nei confronti dei possibili interventi dei Servizi. Ciò implica un timore, da parte dei singoli operatori dei Servizi, di esporsi a possibili denunce o esposizioni mediatiche, ormai sempre più frequenti, visto anche il ruolo che ormai i social media svolgono nella formazione dell’opinione pubblica.
Noi, come UNCM, siamo vivaci assertori del più rigoroso rispetto della normativa vigente e della necessaria implementazione della normativa, la quale non garantisce tuttora un sufficiente e immediato controllo dell’Autorità Giudiziaria sulle decisioni amministrative dei Servizi di Territorio. Riteniamo necessaria e imprescindibile una modifica dell’art. 403 Cod. Civ. attraverso l’introduzione di una procedura che garantisca in tempi celerissimi una forma di controllo giurisdizionale, e dunque un immediato l’intervento del Giudice, il
quale provveda alla convocazione dei familiari del minore allontanato, in una situazione di perfetto contraddittorio, ossia con la piena conoscenza (salvo le situazioni di segreto istruttorio) dei fatti e comportamenti loro addebitati e che hanno giustificato l’agire dei Servizi.
Purtuttavia, riteniamo che il focus dell’intervento dei Servizi e della magistratura debba rimanere il bambino. Ci sono situazioni in cui allontanare un bambino dalla sua famiglia risulta indispensabile anche prima che vengano accertate responsabilità penali o condizioni dei genitori inadeguate per ragioni sanitarie, di dipendenze, o simili. Il traumatico decesso dei due minori di cui si è occupata la cronaca dell’estate appena trascorsa, ci dice un’ovvia verità: se i due bambini fossero stati temporaneamente allontanati dalla loro famiglia di origine e posti in condizione di sicurezza, anche consentendo il mantenimento delle relazioni con i genitori, oggi sarebbero vivi.
La politica, di fronte ad un tema scomodo, come quello della tutela dell’infanzia, ha preferito tacere. Rarissime sono state le voci, anche giornalistiche, che hanno evidenziato il paradosso di un’opinione pubblica sempre pronta a scagliarsi contro assistenti sociali che portano via i bambini, ma che non pare interrogarsi su cosa accade quando tale intervento manchi, a favore di bambini che poi, in famiglia, perdono la vita.
In questo clima, l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono minori suscita, sul piano politico, qualche perplessità.
Ci interroghiamo sul significato di una tale commissione che, con le competenze declinate all’art. 3 della legge istitutiva (Legge 29 luglio 2020, n.107) sembra voler attuare: una verifica dell’operato dell’Autorità Giudiziaria (numero dei provvedimenti emessi ai sensi degli artt. 330, 332 e 333 Cod. Civ. e loro attuazione), una verifica del ruolo dei Servizi sociali, anche all’interno del processo, una verifica della temporaneità dell’affidamento, del rispetto dei requisiti strutturali, organizzativi e delle situazioni di incompatibilità all’interno delle comunità di tipo familiare.
Si tratta di competenza che appartengono all’Autorità Giudiziaria che non per nulla è strutturata su più gradi di giudizio o a quella amministrativa, peraltro regionale visto il rinvio dell’art. 117 della Costituzione.
Le comunità di tipo familiare, che costituiscono una delle forma con cui, grazie a una legislazione autenticamente riformatrice e coraggiosa, si è superata l’istituzionalizzazione dei minori privi di un ambiente familiare idoneo, sono dunque oggi - dopo tutte le polemiche già scatenate contro gli affidamenti etero-familiari - sotto la lente d’ingrandimento della politica. Quest’ultima, invece di preoccuparsi di implementare quei servizi per il sostegno alle famiglie, che richiedono risorse e attenzione (si pensi alla domiciliarità degli interventi socio-sanitari, al coinvolgimento delle famiglie nei progetti di prevenzione dell’istituzionalizzazione, quali P.I.P.P.I.), in una condizione di campagna elettorale permanente, preferisce seguire il pensiero dominante con un’opzione sicuramente meno impegnativa sul piano economico e culturale, ma di dubbia efficacia qualora l’obiettivo sia la reale tutela dell’infanzia e degli strumenti idonei a sostenerla.
Milano 21 settembre 2020
Il Direttivo Unione Nazionale Camere Minorili