Ci sono obiettivi concordati a livello europeo che il nostro Paese fatica a raggiungere. Uno di questi riguarda il tasso di abbandono scolastico, da ridurre sotto il 10% entro il 2020 secondo i piani dell’Unione ma per l’Italia decisamente più alto, con forti disparità tra le regioni.
Secondo fonte Istat il dato nazionale del 2017 era pari al 14% (16,6% tra i maschi, 11,2% tra le femmine), ma in Sardegna e Sicilia raggiungeva il 21%, in Campania e Puglia 19%, in Calabria 16%. C’erano poi le aree virtuose: Abruzzo 7,4%, Trento 7,8%, Umbria 9,3%, Emilia Romagna 9,9%. Il grafico che riporta le statistiche Istat-Miur 2016 per aree geografiche porta in evidenza la particolare sofferenza delle regioni del sud Italia.
Diversi fattori pesano sia sull’abbandono, sia sull’insuccesso. Ad esempio, al liceo lascia la scuola il 2,1% degli allievi, ai tecnici il 4,8%, ai professionali l’8,7%. Non c’è dubbio che gli italiani se la cavino meglio degli stranieri e, tra questi, i nati in Italia molto meglio dei nati all’estero.
Considerando tutti gli ordini di scuola è in ritardo di almeno un anno il 10% degli alunni italiani e il 31% di quelli stranieri, anche per le difficoltà linguistiche di chi nasce all’estero o di chi non ha subito l’opportunità di imparare l’italiano. Frequenta i servizi educativi della fascia 0-6 anni il 96% dei bambini italiani e il 77% di quelli stranieri, chi non ha questa esperienza perde una precoce opportunità di integrazione e apprendimento della lingua.
Ma il punto non è il pezzo di carta.
Si parla ormai da diversi anni di analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di usare efficacemente le abilità di lettura e calcolo nelle situazioni di ogni giorno, e di povertà educativa che è molto più del mancato accesso all’istruzione.
Save the Children, che al tema ha dedicato il progetto “Illuminiamo il futuro”, l’ha definita come privazione, per i bambini e gli adolescenti, dell’opportunità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni. Chi bazzica da un po’ il Movimento Nonviolento sentirà forse, per contrasto, l’eco di una delle definizioni capitiniane di nonviolenza: apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo del vivente.
La povertà educativa, dunque, come violenza sui bambini, sui ragazzi. Come limite alla loro libertà e al loro sviluppo.
Un recente studio dell’Università di Roma Tor Vergata ha rilevato che tra i 15enni il 23% non ha raggiunto competenze minime in matematica e il 21% nella lettura. Gli stessi non sono predisposti per proseguire l’apprendimento nell’età adulta. Parliamo di oltre un quinto del totale, quasi un record (negativo) nell’Unione Europea, da ricercare generalmente tra chi vive nei contesti più svantaggiati sotto il profilo sociale, economico, culturale.
Eppure non sempre coloro che partono in svantaggio raggiungono risultati peggiori, ci sono anche le eccezioni positive, e non sono tutti bambini prodigio. La capacità di riuscire nello studio nonostante un cattivo inizio, definita nell’indagine come resilienza, ha radici sia individuali sia di contesto. Queste ultime ci interessano di più perché sono quelle su cui si potrebbe agire a livello nazionale, regionale e locale con scelte politiche appropriate.
Sono fattori di resilienza:
- una scuola che accoglie e stimola all’apprendimento sin dall’infanzia, con buone relazioni tra insegnanti e studenti e tra insegnanti e genitori, con laboratori e infrastrutture di qualità, e un buon livello di adesione degli allievi alle regole di convivenza;
- la possibilità per i ragazzi di fare sport in modo continuativo e di avere accesso a esperienze culturali, fruizione di opere d’arte, musica, lettura, meglio se a scuola ma anche al di fuori;
- non vivere in condizioni di degrado sociale, ovvero abitare in zone con limitata incidenza di povertà, disoccupazione giovanile e criminalità giovanile.
La resilienza è maschile più che femminile, specie in matematica e questo, si presume, per adesione (forse inconscia) degli insegnanti agli stereotipi che vogliono le bambine fantasiose ma incapaci con i numeri e i bambini razionali e aritmetici.
Ancora, la resilienza appartiene ai ragazzi italiani e stranieri allo stesso modo, se si parla di stranieri nati in Italia (va peggio a chi arriva da fuori) e non è influenzata né dalla composizione familiare (mononucleare, con tanti o pochi figli…) né dalla condizione occupazionale della madre.
I fattori individuali che determinano una buona riuscita sono: un temperamento aperto alle relazioni; l’autonomia, la capacità di risolvere problemi, di porsi obiettivi e di realizzarli; la tendenza a dare valore alla scuola e ai risultati ottenuti, il sentirsi responsabili della propria vita. Ma anche tutto questo non ha origine esclusivamente genetica, è influenzato e non poco dai fattori di contesto, questa volta rintracciabili nelle convinzioni e negli stili relazionali di genitori e insegnanti.
Combinando in modo accorto una molteplicità di elementi che comprendono l’abbandono scolastico, alcuni sintomi di degrado sociale e, di converso, l’esistenza di opportunità culturali e strutture educative, è stato calcolato un Indice di Povertà Educativa per il 2018 che ricalca le medesime differenze regionali illustrate parlando di abbandono scolastico, sebbene anche nelle aree più fortunate le scuole a tempo pieno con attività pomeridiane, o la possibilità di accedere ad esperienze sportive, artistiche e culturali non siano diffuse in modo soddisfacente.
Il progetto di Save the Children si è concluso con l’individuazione di alcuni punti da inserire nell’agenda politica. Li riporto volentieri in giorni in cui si insediano tante nuove amministrazioni locali e gli insegnanti restano a scuola ancora un po’, per cominciare a fare programmazione:
- ridurre la povertà materiale dei bambini, potenziare gli assistenti sociali nei Comuni a rischio e offrire sostegni alle famiglie in situazioni di bisogno nei primi 3 anni di vita dei bambini;
- garantire una scuola di qualità a partire dalla fascia 0-3 anni, con un corrispondente piano di investimenti;
- fare sì che la scuola, a tutti i livelli di istruzione, sia una comunità educante che accresce le competenze linguistiche, culturali, artistiche, digitali, motorie dei suoi alunni; una scuola inclusiva che sviluppa il dialogo interculturale, educa alla legalità, dà sostanza alle esperienze di alternanza scuola-lavoro, si prende cura delle relazioni tra tutte le sue componenti;
- sviluppare un piano organico per l’accoglienza degli alunni stranieri, e in generale una didattica inclusiva per tutti gli alunni che necessitano di particolare attenzione;
- promuovere la formazione continua degli insegnanti secondo le priorità appena descritte;
- assicurare un monitoraggio attendibile del sistema scolastico, con la possibilità di raccogliere dati anche su base regionale;
- investire nella cultura, specie nei territori a più alta povertà educativa.
Sarebbe allora, la scuola, una di quelle istituzioni che hanno il privilegio di concorrere ad attuare l’art. 3, c. 2 della nostra Costituzione:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ragazzi di 18-24 anni che si sono fermati alla licenza media distinti per area geografica, nazionalità e sesso (Dati 2016, Miur Istat)
testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta