Rosy, la tata pasticciona al servizio della famiglia Jetsons, i pronipoti nella versione italiana della divertente serie Tv di Hanna e Barbera, futuristica allora (1962), arcaica oggi, rappresenta l’emblema dell’era attuale: digitale/reale, fantascienza/vintage melanconici, perfetta e sincrona integrazione tra analogico e digitale in un fare sempre più interconnesso mente-corpo che i latini avevano predittivamente preventivato nella nota locuzione del mens sana in corpore sano.
Se nei primi momenti della rivoluzione digitale o dell’investimento dell’onda-net, per rendere l’idea dell’impatto stravolgente con il quale il digitale ci ha travolti, le distinzioni erano abbastanza nette, ORA ad ormai quasi 20 anni di sperimentazioni pratiche, rapidissimi ed incessanti avanzamenti tecnologici e sorprendenti innovazioni, abbiamo maggiori difficoltà di distinzione perché i due mondi, realtà computazionale e realtà ambientale, si integrano all’unisono creando una nuova dimensione integrata in cui il robot e l’umano dialogano a vicenda, uniti nella spasmodica ricerca l’uno di comprendere, imitare, simulare, seguire, connettersi, agevolare l’altro.
Rosy, metallica, e con mani/gancio prensili, non ha nulla a che vedere con la perfezione umanoide di Erica, robot d’eccellenza creata dal Prof. Hiroshi Ishiguro nei laboratori dell’Università di Osaka, che ha debuttato ad aprile 2018 in Giappone come presentatrice del telegiornale.
Osservandola parlare, nella sua perfetta dizione e manierata espressione ci si sintonizza immediatamente sulla strutturazione progettuale della sua realizzazione, che è centrata sull’obiettivo primario di captare e riprodurre pedissequamente le emozioni umane nei suoi bit circuitali. Nel ritorno robot-uomo-robot, il mezzobusto senza gambe né braccia di Erica suscita un mix di tenerezza, di desiderio di “pizzicare” il suo volto di silicio per verificare e toccare con mano, la sua essenza robotica, captata empaticamente e sfuggente visivamente, che da una parte si ammira e d’altra si rifugge nel timore di un confronto/scontro con l’idea di perfezione, efficienza, funzionalità che le macchine debitamente progettate hanno all’interno dei loro sofisticati micro-chip e che ci fanno umanamente comprendere l’Elogio dell’Imperfezione di cui argomentava la nostra Rita Levi Montalcini.
Nell’integrazione/confronto/simulazione tra realtà esterna, UMANA e realtà co-costruita per servire ed agevolare un vivere quotidiano fino addirittura a farlo AUMENTARE, come se non ci fossero abbastanza complicazioni, step, device nell’ambiente naturale, l’uomo sta cercando di riprodurre e riproporre nei circuiti digitali un mondo analogico nel quale l’uomo governato dall’uomo si clona nella ricerca della perfetta sintonia di un’interfaccia cervello-uomo-cervello alla ricerca di un unicum UNIVERSALE, al servizio del corpo e della mente e per tutelare, proteggere, potenziare le loro stesse risorse e potenzialità.
Nell’interfaccia esperienziale uomo-device-uomo i primi return stanno iniziando a farci vedere, in maniera sempre più accentuata, la trasformazione sensoriale che le peregrinazioni digitali hanno prodotto e stanno producendo in un amalgama incessante di nuovi prodotti e vecchi elementi. Se da un lato infatti si sta cercando di progettare e costruire robot con caratteristiche e funzionalità sempre più umane, dall’altra i nuovi device stanno modificando il corpo e la mente in un boomerang futuristico che allontana e cancella lentamente il prototipo umano che la progettazione stava e sta cercando di riprodurre.
Nell’istintivo desiderio gestuale di abbracciare Erica, di sfiorare il suo volto, di sintonizzarsi sui suoi occhi color nocciola, viene ribadita la capacità umana di toccare con mano, per assicurarsi la veridicità di quanto abbiamo dinanzi a noi che, nell’orientamento spazio-temporale dell’ambiente naturale, ci viene garantita dello screening sensoriale che ci guida tramite la scannerizzazione, evolutivamente progettata, dei cinque sensi: olfatto, vista, gusto, tatto, udito. Vie sensoriali che permettono alla mente che esplora di essere guidata nel ritorno ritmico e comportamentale di un corpo che parla tramite gesti, azioni, messe in scena teatrali della comunicazione non verbale. Corpo che nel web è il principale veicolo di comunicazione, surclassando ampiamente e velocemente la comunicazione verbale che ne esce invece depauperata, logorata e emozionalmente impoverita.
Nel nostro tour device sensoriale partiamo dal tatto, che non viene assicurato nello screen ma che rimanda alla futuristica possibilità di poter essere accessoriato affinché si possa provare la spinta ossitocina che il contatto corporeo propulsa. In cambio i nostri circuiti cerebrali possono essere dopati da un crescendo dopaminergico generato da like iconici che di rimando, nella bramosia dell’eccitazione quantitativa possono portare a crolli serotoninici simil-depressivi nel momento in cui siamo esclusi da un gruppo o bloccati nelle conversazioni.
Il tatto è entrato nei circuiti digitali con il gesto ma ha perso la sua intrinseca capacità di manipolazione e stretta di mano, riducendosi in un fare digitale di dita che pigiano, a volte anche compulsivamente, e nella connessione digital-amicale tra polpastrelli di pollice e indice, allargano le immagini creando un nuovo link tatto-vista etimologicamente inserito nella parola touch-screen. Tocco con le dita, allargo le immagini per osservare e captare meglio un mondo in cui l’orientamento sensoriale non mi permette di perlustrare con la fiducia del già conosciuto e assaporato e dell’essere guidato da tutti i canali sernsoriali. Un po' come fa il bambino nel periodo senso-motorio piagetiano, assimilo e mi accomodo alla sperimentazione di un ambiente nuovo che struttura e plasma i miei stessi circuiti cerebrali. Nulla di nuovo e futuristico, ma ben consolidato nell’iter scientifico che Jean Piaget ha rilevato osservando i suoi figli crescere. Nell’era digitale, se osserviamo i nostri figli e noi stessi vediamo quanto il senso del tatto ne sia uscito modificato e ristrutturato nel gesto delle dita che allarga, stringe, modifica e in una parabola discendente depotenzia gesti struttural-identitari quali quello dell’indicare, il touching point, punto d’incontro e d’interconnessione della funzionalità intersoggettiva sé-altro.
Entriamo, tocchiamo, allarghiamo, strizziamo gli occhi acutizzando la vista (con danni che scientificamente comprovati come la secchezza oculare) e stressiamo l’udito alla ricerca di punti di aggancio per immergerci nel “paese delle meraviglie” digitale, senza i sensori di orientamento dell’odorato e del gusto e di un tatto trasformato, depositato sui polpastrelli che sfuggono e ipertrofizzano l’immagine dell’altro alla ricerca dello svelamento di senso che, nel momento in cui si perdono gli abbracci reali nel contatto in vivo, de-umanizzano il sé e potenziano un controllo onnipotente sul sé e sull’altro. Nell’estremizzazione pessimistica possiamo rilevare che mentre costruiamo, progettiamo robot che possano sostituire-agevolare l’uomo, perdiamo empatia e capacità di parola e nella bidirezionalità progettuale della simulazione Sé-robot-Sè, Uomo-Device-Uomo, corriamo il rischio di realizzare apparecchiature simil-umane più sintoniche di noi in un paradosso Mcluhaniano di medium caldi e freddi che perdono il loro potenziale termico.
Fermiamoci un attimo:
Nella nuova frontiera della connessione Uomo-Macchina, ricordiamoci sempre che si parte ancora dalle vie sensoriali principali, del tatto, della vista, dell’odorato, del gusto, dell’udito per dare l’avvio ai percorsi plastici delle connessioni cerebrali, che prendono forma e si strutturano nell’algoritmica e rassicurante sequenzialità di un sé in relazione e con un altro piccolo sé. Un microchip interno, motore d’azione sofisticato, che si si forma e si plasma grazie ai radar sensoriali bidirezionali che la genetica ci ha dato in dotazione, pre-programmando l’input d’avvio del serve and return che sempre a partire dal cervello dell’uomo possono portare ad avvii funzionali di macchine sofisticate che potranno aiutarci, se ancorate alla loro programmazione di utile ausilio funzionale e strumentale, ad usufruire con maggior praticità dei tour esperenziali di una mens sana che agisce in corpore sano.
Ed è solo tenendo in considerazione questo iter progettuale in futuro l’umanità potrà avvantaggiarsi di un cervello relativistico simil-umano, che potrà anche essere al servizio di danni organici di un corpo non più funzionale, come attualmente siamo assistendo nel collegamento di arti robotici azionati dall’input mentale. Intelligenza artificiale a servizio dell’intelligenza umana multipla Gardneriana che governa e non si fa governare da macchine robotiche che possono provocare danni funzionali proprio a quel corpo e a quella mente che anelavano di supportare.
A testimonianza e riepilogo di quanto indicato, vi lascio con un Fermo Immagine tratto dal libro, Il Cervello Universale, di Miguel Nicolelis, edito da Boringhieri, in cui il neuroscienziato della Duke University ricorda la sua amata nonna prima della malattia cerebrale che l’ha colpita impedendole di condividere con il nipote la sua passione musicale:
“Il rituale, anche se ben noto a chi vi prendeva parte, non sembrava mai invecchiare con il passare degli anni. Nel tardo pomeriggio, ogni giorno, quando il pigro tramonto tropicale cominciava a inibire i giochi all’aperto dei bambini, non vedevo l’ora che arrivasse il momento in cui, sempre in silenzio, Lygia si dirigeva con grazia verso il suo punto favorito del soggiorno per diventare la mia complice segreta e disponibile. Nella sua bella casa bianca, con una vera amaca Tupi-Guarani appesa sul bancone del secondo piano, nascosta in una piacevole strada chiusa a Moema nella periferia meridionale di San Paolo, Lygia sapeva che non sarei mai arrivato tardi al nostro quotidiano incontro musicale.
Aveva ragione. Più di ogni altra cosa, ogni giorno, quando attraversavo la porta anteriore della sua casa, senza annunciarmi, quello a cui volevo davvero assistere erano i suoi imponenti passi e la scia profumata di acqua di rose che si lasciava dietro quando si muoveva con eleganza verso il pianoforte verticale con cui aveva stretto una profonda amicizia nel corso dei momenti felici, e anche quelli meno felici, della sua vita” (2010; pag. 352).
Buon sedimentante Rituale sensoriale!
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