Non sappiamo con certezza cosa si cela emotivamente dietro agli agiti dei nostri giovani ma, ancora oggi, troppo spesso, tendiamo ad etichettare la poca coerenza del loro passo dinoccolato, emblema della fragilità del sé, come maleducazione, poco impegno, assenza di volontà, di determinazione, di progettualità.
Nell’etichetta globale del loro narcisismo generazionale e, nel rimanere appesi alla fenomenologia comportamentale delle loro repentine avanzate e delle imprevedibili ritirate, rischiamo di essere ciechi e sordi di fronte ad un interno che soffre, che ha paura, che è terrorizzato, che sta male, che si vergogna, si sente in colpa e che insieme alle lacrime, sotterra un dolore inesprimibile a se stesso e difficilmente comunicabile agli altri.
Un dolore che squarcia gli animi, che può drammaticamente implodere e materializzarsi in agiti distruttivi e in atti estremi che danno voce e spessore emotivo al non detto lancinante di una voragine interna coperta dal qui ed ora di agiti inconsapevoli e poco mentalizzati.
Una sofferenza mentale alla quale, oggi più che mai, dobbiamo prestare attenzione, in quanto altamente sensibile alla precarietà di un mondo esterno che a sua volta vacilla, non sorregge, non dà sicurezza e fa paura nel rimando di quell’assenza di coerenza, di valori etici e morali che invece ogni giovane vorrebbe adesivamente appiccicare sui bordi strutturali del proprio sé.
Un sé che, senza l’appiglio di una società che lo sostiene, che lo guida nell’esempio virtuoso di un modello d’azione, rischia di frantumarsi, di cadere, di bloccarsi inerme di fronte agli ostacoli, di chiedere aiuto, e che nel trincerarsi e nel ritirarsi dietro a beffarde risate, a fragorosi agiti distruttivi, ad assordanti silenzi, a compulsivi ed ossessivi rituali, ad alzate di testa e capricci caratteriali, a digiuni e abbuffate, tenta fino allo stremo di salvarsi, anche quando drammaticamente ed improvvisamente sceglie di calare il sipario su una vita che fa paura, e che annienta ogni carica vitale.