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Che l’avvento di Internet, e nello specifico dei social, abbia cambiato il nostro modo di comunicare lo sapevamo già, e soprattutto lo viviamo giorno per giorno nel qui ed ora della rincorsa whatsappiana che condensa in modo repentino il nostro fluire di pensieri e parole molto spesso “non dette”, ma trascritte nel mix enciclopedico di immagini, audio minimal, riduzioni sintattiche per stare al passo con i tempi e velocizzare/ampliare i nostri contatti alla ricerca dell’ iperconnessione costante e quantitativamente elevata che ci permette di cacciare con mano l’ombra inquietante della solitudine. 

Che dal punto di vista psicologico questa nuova modalità comunicativa debba essere osservata, compresa e forse modulata con maggiore accortezza lo si sa forse meno, o almeno nella rincorsa al contatto perenne e del è solo un nuovo modo di comunicare,  non ne viene compreso appieno il rischio intrinseco dell’illusorietà di una presenza inesauribile che sta alterando, in particolar modo nei giovani e di rimbalzo nei genitori che ne seguono a volte passivi le avanzate e le ritirate, il processo comunicativo e relazionale.

La cartina tornasole che abbiamo, a questo punto tutti i giorni davanti ai nostri occhi, ci viene in qualche modo regalata dagli stessi giovani che dai loro diversi profili social ci mostrano, senza nasconderlo troppo (altro segnale importante che mi riservo di considerare in un altro momento), l’andamento esponenziale di un nuovo modo di comunicare con gli altri nel mix digitale intimi-sconosciuti, nel quale, per orientarsi come in tutte le peregrinazioni, si ha bisogno dell’interpretazione di quanto ci viene mostrato. Nel momento in cui sono nati i social si è aperta la presentazione di noi stessi al mondo, e si sa, gli adolescenti preferiscono in linea e in conformità con l’essenza strutturale del loro processo evolutivo, la strada più veloce, narcisisticamente fondata della forma che fa da contenitore ad un contenuto animato e confuso che si preferisce nascondere, celare e tenere sotto chiave agli altri e a volte anche a sé stessi.  Se da una parte l’alleanza incertezza-device ha permesso a molti giovani di superare timidezze e ansie sociali dando la possibilità di costruirsi avatar simil reali che potessero inizialmente fare da scudo all’impatto fortemente emotivo di sguardi diretti, dall’altra il conformare la comunicazione su binari esclusivi di quanto viene mostrato, bypassando quanto detto e conosciuto nelle interazioni reali, ha prodotto una nuova modalità comunicativa che si è plasmata sul dilemma proverbiale, generazionalmente trasmesso,  dell’abito fa/o non fa il monaco. Come mi presento e quello che traspare nel mio profilo social è il jolly per ottenere consensi, like, sull’onda propulsiva del tentativo di conformarmi a personaggi che hanno raggiunto lo status idealizzato di popolarità, ma nel rovescio della medaglia anche quello che mi provoca delusione ed incrementa il mio livello di incertezza, delusione, ansia, a volte rabbia, invidia, se il gruppo social mi esclude e/o mi deride o se per caso le mie storie fanno di me un personaggio che si allontana e mi allontana, vivendo di un’ identità propria sull’onda della ricerca del consenso degli altri e poco di sé.

Come adulti responsabili non possiamo non vedere, essere ciechi e passivi spettatori, di un processo che sta portando se non compreso maggiormente e preventivamente arginato (e non come spesso accade riflessivamente condiviso), non solo ad etichettare l’epoca in cui viviamo come fortemente narcisistica e del baluardo selfiano, ma anche a sviluppare una traiettoria di rischio (documentato dalle ricerche) per lo sviluppo di ansia, depressione e fenomeni correlati al benessere psicologico delle nuove generazioni.

Come adulti consapevoli quindi è nostro dovere entrare all’interno di questo nuovo modo di comunicare cercando di fare chiarezza che il pubblico quindi sono è solo uno dei tanti modi di presentarsi all’altro e che non gode dell’esclusività di una forma che cattura e rapisce giudizi e consensi, senza essere basata, e di conseguenza avere un ritorno, sull’ autenticità dello scambio interattivo reale per la quale il nostro parlare, la nostra volontà di comunicazione è nata, vorrebbe e dovrebbe continuare ad esistere.

Del resto i miti ci insegnano, e quello di Narciso docet, ma in questo caso lo specchio nel quale mi specchio è uno spazio allargato senza confini e nel quale il mio sguardo è diretto alla ricerca dello specchio osservativo dell’altro che di rimando può disintegrami o osannarmi: sfida intrinseca e altamente rischiosa del gioco adolescenziale che anela e brama emozioni intense e caricaturalmente vitali.

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L’asse della ricerca di una centratura propria viene spostato sull’altro in uno spazio di tutti, visto da tutti e compreso quasi da tutti, nello scudo illusorio di linguaggi generazionali ampiamente diversificati, dove chiunque può riuscire ad emergere grazie ad una presenza che colleziona apprezzamenti e che mi permette di procedere con altrettanta sicurezza illusoria nel mondo, anche se quel mondo è solo la mia camera. L’asse strutturale della sicurezza di sé si modella sull’appoggio narcisistico del giudizio degli altri, spada di Damocle altamente nascosta dalla rincorsa alla ricerca del passo sicuro.

Il consenso in rete sappiamo aumentare dal punto di vista neurobiologico il livello di dopamina con le ricadute sinaptiche che si possono avere nel momento in cui la gratificazione viene meno e si brama una dose di like in più, ma quello che il web non può darci, nell’assenza della corporeità, è l’ossitocina, il neurotrasmettitore degli abbracci, degli innamorati, primo attivatore e collante naturale del legame tra mamma e bambino al momento della nascita, che ricerchiamo per tutta la vita, soprattutto nei momenti di stress e difficoltà, ben conosciuto e anelato, a volte inconsapevolmente e per strade comportamentali tortuose, da grandi e piccini.

L’abbraccio vero autentico, reale con il mio fidanzato o con la mia amica del cuore e non solo del gruppo etichetta esclusiva di confine, è la miglior garanzia di non rimanere intrappolato in un circuito paradossale nel quale quello che posto e condivido mi etichetta nell’essere per sempre tale, pegi sottovalutato a volte drammaticamente, dall’impulsività della rendicontazione selfiana onnipresente e onnicomprensiva del guardare me stesso, l’altro e di fare del giudizio degli altri la mia bussola di orientamento. Lo sguardo diretto segno distintivo di sicurezza nella verifica testuale del mi ha guardato dritto negli occhi o in faccia senza timore, viene ad essere sostituito dalla ricerca di una sicumera indiretta non solo nel presentare all’altro la versione miglior e di me (come sanno molti adolescenti che passano le loro vacanze e le loro uscite sottoponendosi ad estenuanti servizi fotografici amicali alla ricerca del selfie/storia migliore, rimanendo il più delle volte insoddisfatte) ma di rovescio nel controllo costante della vita social dell’altro, amico o fidanzato che sia (il controllo nella coppia social sarà un mio tema di approfondimento), spinto sempre dallo stesso bisogno intrinseco della ricerca della mia sicurezza interna che mi permette di muovermi senza timore nel mondo.

Così fan tutti, così tutti siamo legittimati a controllare a sbirciare furtivi o prepotentemente, dimenticandoci di altri valori come il rispetto, l’intimità e la privacy (anche se poi la legge tenta di ricordarlo), e favorendo il primato del controllo in rete (che la rete a sua volta ci nasconde nel suo vantaggio utilitaristico) che mi da maggiore garanzia del tuo voler esserci, del volere stare con me, dell’essere con me visibilmente unito sotto gli occhi del Grande Fratello mediatico al quale niente sfugge e dove tutto, o quasi tutto, viene legittimato. Tanto è fuori di me nella copertura difensiva di uno schermo che deforma e amplifica parole non dette e gesti mancati facendosi il più delle volte carico di un veicolo superficiale ed edonistico, che si riversa in un NOI controllante che bypassa le regole della vicinanza, del rispetto, dell’intimità, dello stare insieme, del condividere momenti importanti alla ricerca di una progettualità futura che può essere minata da un controllo ossessivo sull’altro basato sulla fallacità interpretativa di immagini e storie non appurate dalla comunicazione diretta vis à vis.

Fermiamoci un attimo:

riprendiamo in mano la parola, il dialogo i gesti, le condivisioni reali ricordandoci sempre che i device sono di ausilio alla qualità della vita e che possono agevolare i nostri scambi comunicativi ma non sostituirsi alla comunicazione reale fatta di sguardi, parole e azioni condivise che sono la miglior garanzia della strutturazione e centratura del sé e dello scoprire e vivere l’altro nella sua vera essenza.

 

 

 

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Barbara Volpi
Psicologa, specialista in Psicologia clinica, Phd in Psicologia Dinamica e Clinica - collabora con il Dipartimento di Psicologia dinamica e clinica della Sapienza - Università di Roma. È membro dell’Italian Scientific Community on Addiction della Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento Politiche Antidroga e Socio Fondatore della SIRCIP (Società Italiana di Ricerca, Clinica e Intervento sulla Perinatalità). È docente al Master biennale di II livello sul Family Home Visiting presso la Sapienza e dell’ Accademia di Psicoterapia Psicoanalitica di Roma. È autrice di numerose pubblicazioni e articoli scientifici. Tra le sue pubblicazioni recenti: «Gli adolescenti e la rete» (Carocci, 2014) e per il Mulino «Family Home Visiting» (Tambelli, Volpi, 2015), «Genitori Digitali» (Volpi, 2017), «Che cos'è la cooking therapy» (Volpi, 2020), «Docenti Digitali» (Volpi, 2021), «I disturbi psicosomatici in età evolutiva» (Volpi, Tambelli, 2022) Per informazioni scrivere a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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