Il web ci ha unito tutti. Siamo connessi in rete, siamo sempre in contatto, ci vediamo, ci seguiamo, sappiamo dove siamo, cosa facciamo, come siamo vestiti, cosa mangiamo, quando andiamo a dormire e quando ci svegliamo. Abbiamo acquisito tanto ma nel contempo abbiamo perso tanto, soprattutto e paradossalmente la capacità di parola.
Parliamo di meno, ci telefoniamo di meno, siamo sempre in contatto ma in una forma nuova modellata su canoni social in cui ci si vede piuttosto che sentirci dal vivo per scambiarci anche semplicemente “un ciao come stai?”, che sembra farci perdere tempo o ci infastidisce, perché il messaggio via chat arriva diretto, non disturba e può essere visto quando si ha del presumibile tempo per l’altro. Tutto molto semplice e lineare fin qui, ma il non detto, le parole scritte, nonché le foto e le emoji hanno aperto un nuovo canale comunicativo incentrato sul controllo dell’altro, sul vedere piuttosto che sul comunicare davvero, sullo spiare se è presente o assente online, sullo sbirciare dove sta, con chi, se è vero che adora un determinato tipo di film o di serie tv o l’ha detto solo perché a sua volta ha sbirciato il mio profilo. “So già tutto di lui” dice Sara all’amica al primo appuntamento con Matteo “ho stalkerato il suo profilo Facebook”. Primi incontri segnati dall’acquisizione di informazioni online, vuoi che sia un appuntamento professionale, vuoi che sia un incontro sentimentale, l’impronta digitale segna da subito il nuovo canale comunicativo in cui le orme online tracciamo spunti conversazionali, nonché aspettative di conferma di un ruolo o di un’identità già annusata e entrata nel nostro set conoscitivo di quell’amico, di quell’imprenditore, di quel personaggio che si trova dinanzi a noi e con il quale instauriamo un dialogo comunicativo.
Se gli adulti, memori delle conversazioni, delle lunghe telefonate adolescenziali intervallate dai moniti genitoriali dell’attacca il telefono o ti faccio pagare la bolletta, non hanno dimenticato l’importanza della comunicazione diretta, delle parole dette in faccia guardandosi negli occhi, del confronto in caso di misunderstanding social, i giovani che hanno d’altro canto inaugurato la strada della comunicazione online hanno difficoltà a comunicare senza l’ausilio delle foto, delle emoticòn, della frammentarietà dei messaggi audio inviati nel multitasking frenetico di un fare che si adegua alla velocità di un tempo di crescita che fugge e che evapora nella liquidità della società moderna.
Giovani sempre meno apparentemente giovani, conformati su standard adulti di immagini che rimbalzano in rete in un confronto conformistico di capelli lunghi, misè provocanti, trucco caricato per dare l’immagine dell’influencer famosa, imprese e tutorial di gesti simil eroici che di eroico hanno ben poco, che hanno paradossalmente difficoltà a comunicare tra loro con le parole o almeno con parole significative. Il nuovo linguaggio digitale infatti si è direzionato sul primato della forma perdendo di vista il contenuto affettivo che è stato pressato dall’algoritmo digitale dell’apparire, del digito quindi sono, e che nel tempo ha visto l’emergere di un impoverimento del linguaggio su canoni alessitemici in cui si ha difficoltà ad esprimere le emozioni, a riconoscerle, ad interpretarle e ad ascoltarle nella voce dell’altro. Meno empatia, più solitudine all’interno del paradosso di un villaggio globale che vorrebbe sentirci tutti uniti cementati in relazioni in cui lo strumento digitale viene utilizzato per avere facilità nella comunicazione e non per bypassare difficoltà comunicative sorte dalla mancanza di comunicazione vera. E la comunicazione vera, si apprende nel linguaggio parlato, non nei simboli e nei video caricati, nell’ascolto di parole che trasmettano l’affettività di una narrazione di sé fatta di realtà e non di conferma o disconferma di quanto illusoriamente costruito sbirciando i profili social. Educhiamo fin da piccoli a tirare fuori le parole, a confrontarsi, a utilizzare il linguaggio per esprimere emozioni e senso di sé, e solo così torneremo a parlare davvero, senza quell’urlo disperato che oggi molto spesso purtroppo siamo costretti ad ascoltare in tutte le fasce temporali del ciclo evolutivo a partire dall’infanzia che dovrebbe essere invece carica di toni delicati ed armonici.
Buona rieducazione del parlato!