Per gentile concessione dell’autrice pubblichiamo l’introduzione del saggio di Barbara Volpi “Gli adolescenti e la rete” (Carocci editore)
Come appaiono gli adolescenti di oggi? L’immagine che li rappresenta maggiormente li vede completamente immersi nel loro variegato mondo tecnologico; davanti allo schermo del pc regolano il mouse con una mano, con l’altra sono completamente assorbiti nell’invio dei messaggi dal loro “telefono intelligente”, lo smarthphone, ascoltano contemporaneamente la musica scaricata da YouTube, scelgono le foto migliori da pubblicare su Facebook, mentre nel medesimo istante tentano di studiare tenendo i libri aperti sulla scrivania della loro camera. I ragazzi che rappresentano questa generazione “multitasking”, nati e cresciuti nell’era digitale, non conoscono un’altra esistenza, né sarebbero in grado di condurla senza l’appendice strutturale tecnologica che permea quasi tutti gli aspetti importanti della loro vita, dallo studio al divertimento, dalle necessità comunicative al bisogno di relazionarsi con i pari e con il partner.
Un’accurata e dettagliata fotografia della generazione digitale nazionale ci viene fornita dall’Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza svolta da Telefono Azzurro ed Eurispes (2012), condotta su un campione di 1.100 bambini di età compresa tra i 7 e gli 11 anni, e di 1.523 adolescenti tra i 12 e i 18, che testimonia per quanto tempo viene utilizzato il pc: dal 27,1% degli adolescenti fino a un’ora al giorno, dal 33,5% da una a due ore, dal 20% dalle due alle quattro ore, dal 13% dalle quattro ore in su. Risultano essere pochissimi (5,9%) coloro che non trascorrono neanche cinque minuti al giorno davanti al pc. La quantità del tempo trascorso on line sembra essere un predittore importante per lo sviluppo di una vera e propria patologia connessa a un utilizzo improprio della Rete (Chou, Condron, Belland, 2005). Come viene, tuttavia, impiegato dai ragazzi il tempo trascorso on line? Gli studi condotti a livello internazionale mettono in evidenza che gli adolescenti utilizzano Internet e i dispositivi tecnologici principalmente per comunicare con gli amici, intendendo con questa parola sia gli amici “reali” che gli “amici virtuali” (Subrahmanyam, Smahel, 2011), rendendo in tal modo confusa la dinamica relazionale che oscilla continuamente tra real e virtual life.
Uno studio condotto nel 2011 dal Pew Research Center’s Internet & American Life Project riporta che l’80% degli adolescenti, tra i 12 e i 17 anni, utilizza i siti dei social network e che il 93% possiede un account Facebook.
Come sottolinea Giedd (2012) in un suo brillante articolo, la modalità con la quale gli adolescenti di oggi apprendono, giocano e interagiscono tra loro è cambiata più negli ultimi quindici anni che nei precedenti 570 dalla divulgazione della stampa ad opera di Johann Gutenberg. Il ritmo di “penetrazione” (la quota di tempo perché una nuova tecnologia venga assimilata da cinquanta milioni di persone) è, infatti, senza precedenti, mostrando livelli di rapidità impressionanti: per la radio ci sono voluti 38 anni; per il telefono 20; per la televisione 13; per il Web 4; per Facebook 3,6; per Twitter 3; per l’iPad 2 e per Google 88 giorni. Il ritmo e la pervasività di questa rivoluzione digitale, o tsunami virtuale come viene definita nel cap. 3, hanno allargato l’orizzonte dei processi adolescenziali creando una nuova prospettiva costituita dall’immersione nel mondo virtuale che deve essere tenuto in considerazione, compreso e sostenuto dalle vecchie generazioni nel loro ruolo di “traghettatrici” (Cramer, 1992) verso lo sviluppo dell’identità adulta. L’utilizzo delle tecnologie informatiche, infatti, se da un lato ha portato e sta portando un grande progresso nelle conoscenze, dall’altro può costituire un fattore di rischio rilevante in fasi della vita, come l’adolescenza, in cui la struttura della personalità dell’individuo è in fase di consolidamento ed espansione (Kuss, Griffiths, Binder, 2013). I “nuovi adolescenti” (Pietropolli Charmet, 2000), figli del Duemila, nati e cresciuti nell’era tecnologica, hanno da subito incontrato un nuovo linguaggio, che entrando a far parte preponderante della loro modalità comunicativa, si è inserito in modo capillare nell’ambiente di sviluppo portando ad influenzare inevitabilmente il processo epigenetico di trasformazione e crescita dell’individuo.
La modalità con la quale gli adolescenti di oggi apprendono, giocano
e interagiscono tra loro è cambiata più negli ultimi quindici anni che nei precedenti 570
L’adolescente di oggi si presenta quindi alla sfida evolutiva rappresentata dall’adolescenza con quel “bagaglio tecnologico” (cap. 1) che può costituire uno strumento di ausilio per il superamento dei diversi compiti evolutivi, oppure può rappresentare un pericolo, spesso non riconosciuto, per lo sviluppo di una vera e propria patologia, la cui denominazione è stata oggetto di un ampio dibattito nel panorama scientifico internazionale e che a tutt’oggi non ha ancora assunto termini di chiarezza e legittimazione diagnostica. Infatti, come emerso nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (dsm v), pubblicato dall’American Psychiatric Association (apa, maggio 2013), occorre ancora attuare maggior chiarezza nel considerare l’utilizzo disfunzionale di Internet come un disturbo vero e proprio, con caratteristiche specifiche che ricalcano l’area dei disturbi da uso di sostanze, così come è invece accaduto per il gioco d’azzardo patologico. Nello specifico occorre mettere in evidenza come nella sezione 3 del Manuale, riservata alle condizioni che richiedono ulteriori ricerche prima di essere formalmente considerate come disturbi, è stato inserito il disturbo da gioco on line come area da indagare, con particolare riferimento all’utilizzo effettuato in adolescenza. La riflessione sulla temporalità della fase evolutiva specifica dell’adolescenza ci porta necessariamente a prendere in considerazione la non completa formazione dello sviluppo cerebrale dell’adolescente, che lo espone a rischi maggiori in quanto viene a mancare, come esposto in modo dettagliato nel cap. 2, il “freno inibitorio” della corteccia frontale. Come sottolineano Farber et al. (2012), i clinici stanno iniziando a indagare le conseguenze della navigazione nel Web in aree d’indagine ben specifiche come lo sviluppo adolescenziale, i modelli di socializzazione, l’innamoramento, la psicopatologia e la psicoterapia.
Al di là infatti della mera etichetta diagnostica, occorre evidenziare come l’adolescente ritrovi nel Web la possibilità di esprimere la sua identità in varie aree di sperimentazione del Sé (cap. 3), che vanno dall’area della socialità a quella ludica, a quella della sessualità, che gestite con gli strumenti informatici aumentano ancora di più il divario generazionale (digital divide) tra genitori e figli. Queste aree di sperimentazione nella digitalità virtuale possono dare l’illusione di essere facilmente gestite dalle nuove generazioni, che nascondendosi dietro la sicurezza dello screen e la destrezza e abilità con le quali vengono maneggiati i nuovi dispositivi digitali, entrano nelle chat-room, nei profili Facebook, nell’accettazione di amicizie on line senza la necessaria cautela con la quale vengono invece condotti i primi passi nel mondo reale. Le aree di sperimentazione del Sé adolescenziale nel mondo virtuale seguono una logica ben diversa rispetto ai criteri definiti nel mondo reale, basata molto spesso sull’amplificazione delle notizie, sulla violazione della privacy, sull’immediatezza temporale, sulla falsificazione delle informazioni e dei profili (fake), sulla sicurezza violata, che può in modo drammatico far sfuggire di mano il “gioco”, trasformandolo repentinamente e improvvisamente in un pericolo per i ragazzi che possono ritrovarsi, ad esempio, investiti dal deleterio tsunami del cyberbullismo (cap. 3).
Del resto occorre tener conto, soprattutto nell’area adolescenziale, della considerazione di Gagnepain (1990) il quale sottolinea il passaggio da un’epoca caratterizzata dalle patologie dell’inibizione (l’isteria, la rimozione e la repressione) a un’epoca – l’odierna – caratterizzata da patologie dell’eccesso e dell’agire (le dipendenze, i disturbi di personalità). Sono state condotte molte ricerche tese ad analizzare le conseguenze dei social media per le nuove generazioni arrivando a coniare termini come “bambini persi nel cyberspazio”, “effetti antisociali dei social network”, “volo dalla conversazione” e “depressione da Facebook”, “uso problematico di Internet” (piu; Caplan, 2003) e “sindrome da social media”.
Un utilizzo non controllato e compulsivo della Rete influisca negativamente sul benessere psicologico
della persona, incrementando l’isolamento, la depressione, l’ansia
Per l’American Pediatric Association i siti di social network, come ad esempio Facebook, sono responsabili di alcuni dei sintomi clinici maggiormente evidenziati dagli esperti (O’Keefe, Clarke-Pearson, 2011; Sloviter, 2011) nella comunità scientifica: depressione, deprivazione del sonno, ansia sociale, aggressività, Internet Addiction (ia), isolamento sociale e suscettibilità all’influenza delle avversità on line (Leung, 2002; Valkenburg, Peter, 2007).
Oltre a ciò, clinici, genitori e figure direttamente in contatto con la formazione educativa degli adolescenti, come ad esempio gli insegnanti, mostrano livelli di preoccupazione crescente per i nuovi fenomeni che sono apparsi nell’utilizzo indiscriminato delle diverse tecnologie, come il sexting, le sollecitazioni sessuali on line e gli insulti virtuali, ma anche il fornire informazioni personali attraverso, ad esempio, la chat di Facebook.
L’abuso di Internet (cap. 4) ha portato quindi clinici e ricercatori a cercare di delineare gli aspetti psicodinamici e descrittivi delle dipendenze tecnologiche, definite anche Internet Related Psychopathologies (Cantelmi, Del Miglio, Talli, 2000), che variano dal gioco d’azzardo compulsivo on line alla dipendenza dal cybersesso, alla dipendenza da cyber-relazioni, alla dipendenza da giochi di ruolo on line, alla dipendenza da eccessive informazioni, alla dipendenza da social network quali Facebook e altri, con l’occhio rivolto alle conseguenze che esse possono determinare nelle nuove generazioni. Negli ultimi venti anni, infatti, è stata portata avanti una mole di ricerche per cercare di comprendere questi fenomeni riportando una serie di risultati che hanno messo in evidenza come un utilizzo non controllato e compulsivo della Rete influisca negativamente sul benessere psicologico della persona, incrementando l’isolamento, la depressione, l’ansia, deteriorando in tal modo l’autostima e il supporto sociale percepito (Caplan, Williams, Yee, 2009; Ceyan, 2008). In particolare, in adolescenza, l’uso improprio di questa tecnologia può rappresentare, riprendendo le parole significative di Steiner (1996), un “rifugio della mente” che si colora di un utilizzo indiscriminato e rigido del computer portando all’isolamento, alla compromissione della relazione con gli altri e alla perdita del contatto di realtà. Se infatti questa modalità di ritiro dalla realtà non assume carattere transitorio ma viene trasformata in consuetudine, lo stile di vita verrà inevitabilmente caratterizzato dalla dipendenza e l’adolescente si ritroverà a vivere, in modo dissociativo, una realtà virtuale parallela, caratterizzata da relazioni sociali, scambi comunicativi, aperture relazionali che poco hanno a che fare con la quotidianità della realtà esterna. Il linguaggio del mondo virtuale, infatti, è molto diverso da quello con cui l’adolescente deve confrontarsi a scuola, nelle relazioni con i compagni, nelle prime esperienze sentimentali, e nei casi di fragilità psichica le inevitabili incursioni nel mondo reale non faranno altro che produrre spavento e terrore che, senza l’adeguato supporto di una “base sicura” (Bowlby, 1975, 1982, 1983), porteranno l’adolescente a rifugiarsi difensivamente nell’immediatezza della soddisfazione e dell’onnipotenza virtuale, in cui tutto diventa possibile e sperimentabile senza conseguenze dannose per il Sé. Tuttavia l’apparente sicurezza di questo rifugio può arrivare, in determinate condizioni, a sgretolarsi, distorcendo il senso dell’identità e della relazionalità, come ben testimoniato dalla forma di ritiro sociale che ha colpito più di un milione di giovani nipponici, i quali vivono volontariamente in casa, o per meglio dire nel loro unico e solo mondo virtuale: si tratta dei cosiddetti hikikomori.
Questo termine, che letteralmente significa “rannicchiarsi in sé stesso”, “isolarsi”, “appartarsi”, è stato coniato per la prima volta dal dottor Tamaki Saitō, direttore del Sofukai Sasaki Hospital e descritto per la prima volta da Yoshimi Kasahara nel 1978. Dai dati emersi da una ricerca (Watts, 2002) durata 12 mesi, presso 697 centri di sanità pubblica, sono stati segnalati 6.151 casi; il 40% dei soggetti aveva tra i 15 e i 25 anni, il 21% tra i 25 e i 30. La maggior parte erano maschi e in genere il più colpito era il figlio maggiore. L’8% era rimasto in casa per dieci anni o più. Occorre evidenziare che, sebbene il fenomeno sia favorito dal particolare substrato culturale e sociale tipico del Giappone, dalle tradizioni che regolano le dinamiche familiari e dalla prosperità economica raggiunta negli ultimi anni, anche in Italia iniziano ad essere rilevati casi analoghi nel Sud del paese, dove la struttura familiare di tipo matriarcale ripropone quella giapponese (Aguglia et al., 2010). Gli studiosi indicano nella tendenza dei genitori italiani a “trattenere” i figli a casa oltre una certa età l’elemento che favorirebbe l’espressione del disagio giovanile attraverso questa forma specifica di autoreclusione, piuttosto che attraverso modalità più aggressive come il bullismo o i “comportamenti di branco” (Ricci, 2008), che tuttavia risultano essere presenti. Per concludere questa panoramica introduttiva alle varie aree che verranno affrontate nel corso del testo, occorre considerare che nell’ambito dell’attuale paradigma della psicologia dello sviluppo, centrato su un confronto aperto di discipline diverse, il contributo rilevante delle neuroscienze sta fornendo sostegno e validità empirica alla mole di risultati già emersi dalla ricerca in ambito clinico. Nell’ambito di questa specifica patologia, viene infatti messa in evidenza una modificazione strutturale del cervello a seguito dell’esposizione prolungata a Internet.
i nuovi media sarebbero in grado di produrre profondi cambiamenti nel cervello dei giovani,
riducendone l’attenzione, incoraggiando la gratificazione istantanea, rendendoli sempre più individualisti
In particolare Yuan et al. (2011) hanno trovato una correlazione tra alterazioni della materia grigia del cervello e l’Internet Addiction Disorder (iad). Gli autori, avvalendosi di strumenti di rilevazione dell’attività cerebrale (risonanza magnetica funzionale) e di particolari analisi dei dati, hanno riscontrato differenze significative tra il gruppo di soggetti “dipendenti da Internet” e il gruppo di controllo, composto da soggetti “non dipendenti da Internet”. Tali differenze sono state interpretate come potenzialmente associate ai danni della materia bianca in alcune aree del cervello (più specificatamente una demielinizzazione, che comporterebbe una diminuzione nella velocità di trasmissione degli impulsi nervosi). Il dato più rilevante, emerso già in altri studi, è che alterazioni simili vengono riscontrate in altre dipendenze, quali quelle dagli oppiacei, confermando ancora una volta l’invisibilità del confine tra lo psichico e il somatico.
Secondo Greenfield (2009) i nuovi media sarebbero in grado di produrre profondi cambiamenti nel cervello dei giovani, riducendone l’attenzione, incoraggiando la gratificazione istantanea, rendendoli sempre più individualisti, facendoli regredire ad uno stadio infantile caratterizzato da una povertà emozionale e comunicativa, che viene rappresentata dall’aridità dei contenuti dei messaggi in cui predominano faccine e immagini al posto delle parole. La ripetuta esposizione a questa forma di linguaggio porterebbe a un vero e proprio “ricablaggio” (rewiring) delle connessioni cerebrali, dando vita a nuove connessioni tra aree cerebrali diverse.
In Italia, il dibattito e lo studio della dipendenza da Internet sono stati avviati già da diversi anni; a partire dal primo lavoro pubblicato da Tonino Cantelmi nel 1998, sono stati pubblicati diversi contributi senza tuttavia arrivare a una definizione concorde da parte della comunità scientifica. Sul versante operativo, occorre segnalare l’esigenza di sensibilizzare sia il mondo degli adulti rappresentato da insegnanti e genitori, sia il mondo degli stessi adolescenti sulle diverse modalità di uso della Rete e sul rischio potenziale dell’abuso di Internet, in modo da avviare una progettualità di prevenzione primaria che possa agire in modo tempestivo e capillare prima della strutturazione della patologia vera e propria. Questo testo nasce con l’obiettivo di fornire un’utile e maneggevole “bussola” per gli adolescenti in primis, ma anche per i genitori, gli insegnanti, gli specialisti del settore, gli psicologi, i clinici, i formatori e tutti coloro che si relazionano con gli adolescenti, al fine di orientarsi meglio nella comprensione della modalità di utilizzo della Rete evidenziando le potenzialità ma anche i pericoli delle nuove tecnologie, che si sono inserite in modo preponderante e sempre più capillare nelle nostre azioni quotidiane, alterando in modo repentino il nostro modo di essere nella realtà.
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