400.000 migranti sbarcati negli ultimi anni, di cui 15.000 morti nel mar mediterraneo, l’isola di Lampedusa, di 20 km2, dista 70 miglia dalla costa nordafricana e 120 miglia dalla costa siciliana. Sono dati che fanno riflettere, quelli presentati nell’incipit dell’ultimo lungometraggio di Gianfranco Rosi, che ha vinto l’Orso d’Oro al Festival del Film di Berlino 2016.
Conosciamo subito il protagonista Samuele, un ragazzo di 12 anni figlio di un pescatore, che vive a Lampedusa e trascorre il tempo tra la scuola e il girovagare in giro con l’amico, giocando con la fionda da lui costruita con un ramo secco di pino, più flessibile e residente, per colpire gli uccelli, giocando con le micette sui cactus con incisi volti umani, e simulando battaglie a riva, con il braccio utilizzato come mitragliatrice, giocando sulla terraferma perché in barca soffre di mal di mare.
Stacco e cambio di scena, è notte e il radar dell’isola intercetta una richiesta di aiuto lanciata da un barcone con 250 persone a bordo. Di nuovo stacco e cambio di scena, una signora sta cucinando mentre ascolta la radio, che annuncia il recupero di 206 persone dal barcone, soccorse durante la notte, 44 persone che non ce l’hanno fatta.
Tutto il lungometraggio si sviluppa su un doppio binario di sequenze e storie parallele: da un lato gli abitanti dell’isola di Lampedusa, impegnati nelle loro attività quotidiane, dall’altro i profughi che tentando la sorte attraversando il mar Mediterraneo dalle coste nordafricane verso l’Italia. Pietro Bartolo, il medico dell’isola, non è ancora abituato a contare i corpi dei cadaveri recuperati e, insieme ai soccorritori, fa da collante tra le sequenze e storie parallele.
L’isola di Lampedusa vista da Gianfranco Rosi, non è quella turistica ed estiva, con le spiagge bianche e le acque cristalline da cartolina, bensì un’isola fatta di campagna invernale più che di mare, di suoni e immagini quotidiani, di vecchi interni, di ritmi lenti, che tuttavia custodiscono la loro rara bellezza.
è rimasto un anno a Lampedusa, entrando nel microcosmo
dell’isola e dei suoi ritmi di vita, e trasferendolo realisticamente nel documentario
Il titolo del film, richiama un brano musicale in dialetto siciliano, ma anche i ricordi della nonna di Samuele, delle luci dei razzi lanciati dalle navi militari in mare durante la seconda guerra mondiale.
Un contrasto forte, quello di Samuele che vive su un’isola circondata dal mare e che soffre di mal di mare, mentre tutt’intorno si parla di un flusso inarrestabile di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che continuano a tentare di attraversare quel mare, a volte senza riuscirci, in fuga da guerre, persecuzioni e miseria e alla ricerca di una vita migliore. Samuele non incontra mai i migranti, ha un occhio “pigro” che deve essere curato e rieducato attraverso il bendaggio di quello sano, e ci ricorda lo sguardo miope che l’Europa ha sul fenomeno dell’immigrazione. Chi invece incontra i migranti è Pietro Bartolo che, nonostante una macabra routine, mantiene viva la sua sensibilità e il suo senso di partecipazione.
Gianfranco Rosi rifiuta il classico documentario “mordi e fuggi”, che vede la troupe giornalistica giungere sul luogo dell’ultimo naufragio/salvataggio per girare qualche immagine shock e raccogliere qualche testimonianza che avvalori quell’impianto spesso ideologicamente preconfezionato (pro o contro) sul tema dell’immigrazione. Il regista, ci ricorda quel Salgado de “Il sale della terra” di Wim Wenders, perché è rimasto un anno a Lampedusa, entrando nel microcosmo dell’isola e dei suoi ritmi di vita, e trasferendolo realisticamente nel documentario. Il suo è un cinema di sguardo e di montaggio. Sguardo in equilibrio fra distacco documentaristico e umana partecipazione, sguardo che cattura le immagini terse, i suoni e i silenzi, e li restituisce in modo autentico allo spettatore. Montaggio creativo, composto da un puzzle di storie quotidiane e di storie drammatiche, di rimandi, di allusioni e di suggestioni.
Il tema della morte è un tema già affrontato da Gianfranco Rosi. Il suo primo documentario “Boatman” (1993) è stato girato in India sul Gange, fiume sacro nonché luogo di sepoltura in cui vengono disperse le ceneri o su cui vengono abbandonati i cadaveri di chi non si può permettere una cremazione. Sia il Gange che il Mediterraneo sono in fondo cimiteri. Nel documentario “Sacro GRA” (2013), che ha vinto il Leone d’Oro alla 70° Mostra del cinema di Venezia, girato tutto sull’ambiente e sulla vita che circonda il grande raccordo anulare di Roma, il regista ha mostra alcune scene sul disseppellimento che ha luogo per legge, dopo un certo tempo dai decessi, la riesumazione delle salme e il loro “sversamento” in fosse comuni.
Qui di seguito uno stralcio di intervista al regista pubblicata su Panorama, a seguito della vittoria al Festival di Berlino.
Fuocoammare è stato accolto subito come un film politico. Lo era fin dal progetto?
Inizialmente dovevo fare un instant movie che desse di Lampedusa un'immagine più vera, lontana dall'eco mediatica. Ma poi ho trovato un mondo complesso da raccontare. La mia non è un'inchiesta politica, ma è vero che la cronaca impone nuovi ragionamenti: non possiamo lasciare che il Mediterraneo diventi la tomba di chi fugge da guerre, fame e disperazione.
Cosa risponde a chi ripete che l'Europa non può accogliere tutti, che deve chiudere le frontiere?
Dico che è inutile alzare barriere, nella storia i muri non hanno mai resistito. Chi scappa dalla disperazione e dalla morte non ha altra scelta, e non si fermerà. Come quelli che si lanciavano dalle Torri Gemelle in fiamme, nel 2001. Un profugo mi ha detto: "Anche se ti dicono "potresti morire in mare", finché c'è un "potresti" tu parti".
Lei che cosa si augura?
Che i politici affrontino l'emergenza, che si tenga un summit come quello recente dell'Onu per il clima a Parigi. Che si creino corridoi umanitari, si pensino soluzioni per fermare le guerre. Altrimenti i profughi saranno sempre di più, passeranno da tre a 30 milioni.
A Lampedusa sembrano tutti solidali, non ha registrato insofferenze o proteste?
Come dice il medico, Pietro Bartolo, è un'isola di pescatori e tutto quello che viene dal mare è benvenuto. I lampedusani sono speciali. Pensi che ho affittato lì una casa per girare Fuocoammare e non riesco a lasciarla.
C'è chi, vedendo il film, l'ha accusata di pornografia del dolore.
Qualcuno che urla c'è sempre, ma era una voce fra gli applausi. Nessuno dovrebbe mai filmare la morte, ma se c'è una tragedia ignorata io sento il dovere morale di farlo. Ho immagini ancora più forti di quelle usate nel film, ho dentro di me scene indimenticabili. D'altronde è la mattanza che non dovrebbe esserci, non io.
Certo, resta aperta la domanda se l’Orso d’Oro sia stato vinto solo per il valore dell’opera e per il suo apprezzamento, o se invece anche per lavare la coscienza dei tedeschi e del resto d’Europa, che hanno lasciato sola l’Italia per tanto tempo, davanti a questa inarrestabile tragedia.
Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano,
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen