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Sarajevo, una classe di terza media discute su dove andare in gita scolastica, da cui il titolo della pellicola, con riunioni del consiglio di classe e dei genitori che si interrogano se sia il caso di lasciare che i figli vi partecipino o meno, tutto ciò anche a seguito di un episodio che aveva fatto molto scalpore, in cui due ragazze di Banja Luka (Republica Serbska) erano state violentate durante una gita scolastica.

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Nel frattempo, la vita di una delle ragazze della classe, Iman, prende una piega imprevista, dal momento in cui, durante il gioco della bottiglia, ha confermato le voci che avrebbe avuto un rapporto sessuale con un ragazzo più grande, Damir.

Il lungometraggio prende in prestito le regole del “coming of age”, nell’incipit e solo per spingersi oltre e raccontare con uno sguardo quasi documentaristico le storture di un contesto ancora fortemente radicato in posizioni conservatrici e regole patriarcali che dominano la società odierna bosniaca. Può essere definito come un racconto di formazione tra tabù e patriarcato.

L’episodio richiamato all’inizio dell’opera è realmente accaduto qualche anno fa, e ha fatto molto rumore in Bosnia Erzegovina: sette ragazze di 13 anni sono rimaste incinte durante una gita scolastica. Ne è seguita una forte reazione della società di indignazione e incredulità, tutto ciò alimentato da un'isteria mediatica collettiva che ha puntato il dito contro le ragazze, con illazioni di ogni genere.

Mentre le ragazze sono state date in pasto alla gogna sui media e sui social, raggiungendo anche la stampa internazionale, ciò non è accaduto rispetto ai maschi coinvolti nell’episodio. Quello che ha colpito la regista, è che a nessuno interessava cosa fosse realmente accaduto, da cui l’idea di assegnare alla protagonista della sua opera, il compito di dare voce a quelle ragazze, ai loro desideri e alle loro verità personali.

Iman è un'adolescente come tante altre, sensibile, ingenua, ribelle e poco incline a seguire i dogmi morali della società in cui vive, alle prese con la scoperta della propria sessualità e in cerca di un suo posto al mondo, mentre sperimenta la brama di essere desiderata. Quando si prende una cotta per il maggiorenne Damir, durante il gioco di “obbligo o verità” fa credere ai suoi compagni di classe di aver fatto sesso con lui e di essere rimasta incinta.

Iman però non fa i conti con gli effetti a catena di questa falsa confessione, alimentati esponenzialmente dai social, e resta imbrigliata della sua stessa menzogna, diventando il centro di una controversia che sfugge totalmente al suo controllo e la obbligherà a fare i conti con le regole morali di una società a dir poco tradizionalista, una società in cui la gravidanza fuori dal matrimonio è ancora uno scandalo.

Viene dapprima emarginata, vittima del giudizio lapidario e crudele della sua comunità, e subisce anche la rottura di un'amicizia fraterna. Solo nel momento in cui la bomba esplode e diventa di dominio pubblico, Iman cessa di sostenere il gioco e prende consapevolezza della dura realtà e delle drammatiche conseguenze del suo atto di ribellione, un gesto interpretato da chi la giudica come una pericolosa patologia.

Il film è girato con la camera a mano, che segue e scruta Iman nei suoi movimenti esteriori e interiori: agghindata con giacche e pantaloni larghi, un taglio di capelli corti e colorati, una fisicità androgina, Iman non sente la necessità di esibire il proprio corpo, come invece fanno le sue coetanee. Qualcuno ha paragonato Iman a Hester, la protagonista de “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, romanzo pubblicato nel 1850 e ambientato nella Boston puritana del XVII secolo in cui la protagonista, Hester Prynne, colpevole di adulterio, era stata condannata a portare sul petto una grande “A” rossa. La società bosniaca le ha marchiato una grossa “A”, inclusi i professori che rifiutano Iman, e arrivano perfino ad accusare la madre di essere una pessima madre.

Tutti i protagonisti adolescenti, inclusa Iman, sono attori non professionisti che sono stati accompagnati dalla regista a comportarsi nel loro modo più naturale possibile, mentre intransigente ed essenziale è la messa in scena, dove dominano toni freddi che descrivono l’aspra cultura bosniaca, e dialoghi spesso sostituiti da gesti, sguardi, e soprattutto silenzi.

Mentre gli adulti sono segregati in un microcosmo giudicante, composto da lunghe discussioni su cosa sia meglio fare o non fare visto lo “scandalo” causato dalle dichiarazioni della ragazza. La città di Sarajevo resta sullo sfondo, tinta di toni lividi, condita di luci e ritmi dell’hip-hop che meglio si addice alla comunicazione con una generazione giovane, spesso confusa e silenziosa.

Sicuramente un lungometraggio d’esordio carismatico di grande impatto e di forte realismo, la falsa confessione della protagonista, è lo strumento per denunciare la spietatezza di una società ancora legata a dogmi religiosi e morali, ancora fortemente tradizionalista e patriarcale. L’escursione che dà il titolo all’opera, può essere interpretata anche come l’excursus che fa la regista dentro la realtà che vuole mostrare, raccontando le dinamiche della società in cui è nata e cresciuta.

Il film è stato girato dal 22 aprile al 29 maggio 2022 nel cantone di Sarajevo con un gruppo di adolescenti, è stato poi presentato nelle sezioni “Cineasti del presente” al Locarno Film Festival 2023, dove ha vinto una menzione speciale, e “Alice nelle città” al Festival di Roma 2023, nonché candidato come miglior film straniero agli Oscar 2024.
Una Guniak ha lasciato Sarajevo ancora molto giovane per seguire il suo sogno di diventare regista. Dopo aver ottenuto un diploma di montaggio alla NFTS (National Film and TV School) di Beaconsfield e aver lavorato come montatrice a Londra e all’estero, passa dietro la cinepresa per girare “The Chicken”, che è stato premiato all’European Film Awards per il miglior cortometraggio e presentato tra i vari festival anche alla “Semaine de la critique” di Cannes, nonché “Salamat From Germany” che ha inaugurato la “Quinzaine des Réalisateurs” sempre a Cannes.

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La regista è stata intervistata durante il Festival di Roma 2023, ecco alcune delle domande e risposte più significative: 
In quanto donna sui trent’anni che sta cercando di districare i nodi della sua educazione sessuale, in quanto bosniaca intenta a osservare la gioventù di oggi e, infine, in quanto femminista, ho sentito l’urgenza e l’obbligo di realizzare questo film - spiega Una Gunjak – in cui ho voluto esplorare l’intricato cosmo di un’adolescente in bilico tra la paura del giudizio e la frenetica voglia di crescere…Il mio viaggio tra gli adolescenti nel loro incubo quotidiano, a partire dai loro occhi…C’è una parte di me nella sua brama di essere desiderata - riferita alla giovane protagonista Iman - Credo che ogni giovane donna si senta soggetta a questo sentimento.

Com’è stato lavorare con adolescenti?
Lavorare con gli adolescenti è stato ovviamente impegnativo, ma degno e stimolante. La parte più difficile è stata convincerli a essere solo sulla scena. Non è solo che sono nell'età in cui è molto difficile per loro, sono la generazione che è cresciuta con l'immagine di sé stessi. I selfie hanno fatto quello che hanno fatto e sanno tutti da quale angolazione stanno meglio quando vengono ripresi. Spesso, dovevano essere stupidi insieme per poter dimenticare come "dovrebbe essere" e semplicemente "essere". Quindi, tutto sarebbe facile, perché sono meravigliosi così come sono.

Cosa vuol dire essere “donna, femminista e bosniaca”?
Ho 37 anni, sono in un’età in cui ho già riflettuto abbastanza sui modi e sulle evoluzioni della mia sessualità. Col tempo ho sviluppato una coscienza femminista molto forte che mi ha portata ad interrogarmi sulla mia società, a stabilire che certe cose non vanno bene. Pur essendo andata via dal mio Paese a diciotto anni, rimango molto sensibile a ciò che succede lì. In Bosnia i danni lasciati dal capitalismo neoliberale si sono incatenati a un dogmatismo installatosi in mancanza di altri valori. Tutto questo ha dato come conseguenza un Paese fermo in sabbie mobili che stanno lentamente mangiando le nuove generazioni. In quanto donna, femminista e bosniaca, quindi, sento di dover parlare.

Il dogmatismo di cui parla ha influito anche sulla percezione del suo film?
Il modo in cui la critica bosniaca parla del film mi rende veramente molto agitata. “Excursion” uscirà in sala tra quindici giorni, ma nei titoli dei giornali leggo già delle frasi estremamente patriarcali. Qualcuno ha scritto “il primo film è già un maschio” usando il sesso maschile come metafora di qualcosa riuscita bene. Lo trovo aberrante.

Il film riflette le carenze dell’educazione degli adolescenti del suo Paese. La spaventa la società attuale?
Quando guardo la tv in Bosnia, mi capita di vedere delle ragazzine di 13 anni vestite da donne adulte che ballano in maniera provocante davanti a uomini di 50 anni. Tutto ciò è vomitevole, e mi sento in obbligo di agire. Pratico così il mio femminismo, mettendo un punto interrogativo a partire dalle mie azioni, da come io mi muovo nella società.

Nella pellicola hanno un ruolo importante i social network, che generano forti aspettative e standard estetici irrealizzabili. Sono un luogo dannoso per la formazione delle giovani donne?
Sì. Ne sono convinta. La loro conseguenza sull’empatia delle nuove generazioni è qualcosa che si sta degradando poco a poco. La società sta diventando un’industria che cerca consumatori per i suoi prodotti. Ciò che trovo particolarmente dannoso, poi, è il fatto che queste ragazze sono sempre coscienti dell’aspetto che hanno: sono costantemente spaventate di non apparire perfette. Io alla loro età ero molto più ridicola e ingenua.

Ha riscontrato questa paura anche durante le riprese?
Certo. Loro sanno sempre qual è il loro profilo migliore, quali sono i lati da tenere più nascosti. È stato molto difficile sul set staccarle da quel tipo di comportamento, farle essere ragazzine un po’ folli, un po’ ridicole, un po’ vivaci, senza posare. Ci siamo riuniti in post produzione con tre ragazze e un ragazzo per doppiare nuovamente una scena. Le reazioni delle ragazze quando hanno visto le prime immagini del film erano tutte “Guarda come sono grassa! Oddio, ho il doppio mento! Guarda che naso enorme!”. Il ragazzo, nel frattempo, si guardava compiaciuto, e con tutta onesta ha detto “Quanto sono figo!”. C’è un’enorme differenza di percezione. Mi sono resa conto che quelle giovani donne stavano vivendo esattamente ciò che il film cerca di denunciare.

“Excursion” esplora a pieno la dicotomia femminile tra l’imbarazzo della scoperta della propria intimità e l’imposizione sessuale a livello sociale.
È proprio questo il lato che volevo sviscerare. È qualcosa di universale, che succede in ogni società. Si sente ancora più forte, però, in quei Paesi con un dogmatismo religioso forte, come la Bosnia. Bisogna capire che non sono solo i genitori a doversi occupare dei figli. Questi adolescenti sono figli della società. Sarà l’intero Paese a doversi assumere le conseguenze della loro crescita.

Come dovrebbero essere educati questi figli?
Comprendendo la complessità delle cose. Se la società ti reprime, ti fa sentire che ciò che per i maschi è visto con simpatia, per le ragazze è motivo di vergogna, diventa davvero difficile crescere in maniera corretta. L’adolescenza è un momento nevralgico. Già biologicamente ci si sente un po’ intimiditi e si tenta di non esporsi, se poi tirando fuori parti intime di sé ci si sente giudicati, ovviamente ci si sente repressi.

L’educazione sessuale nelle scuole è anche in Bosnia – come in Italia – una forte mancanza?
Sì, assolutamente. Nello sviluppo del film ho lavorato con l’associazione XY, che cerca di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole medie.  Tuttavia, i Municipi sono spesso governati dall’estrema destra, che si oppone – così come tantissimi genitori – a quest’insegnamento. A mio avviso, non basta studiare biologia: quasi tutti i ragazzi sanno come si fa un bambino. Il problema è piuttosto un altro: bisogna spiegargli le conseguenze. Che siano di un rapporto sessuale prematuro, di una violenza o di qualsiasi cosa che non siano in grado di catalogare.

L’ispirazione per il film nasce da una storia di cronaca vera. Sette studentesse sono tornate incinte da un viaggio di studio, e lei ha riferito di aver visto sui giornali solo inchieste sulle cause che hanno mosso le ragazze, senza mai interrogarsi sulla parte maschile. Anche nella rappresentazione dei media c’è un problema di maschilismo interiorizzato?
Ne sono fermamente convinta. Ho letto questa notizia all’aeroporto a Londra, sul Daily Mail. Non mi sono mai interessata alla veridicità dei fatti; la cosa che mi preme è il modo in cui la vicenda è stata trattata. Tutti erano lì a discutere sull’educazione di queste ragazzine, ad apostrofarle in maniera inammissibile. “Chissà chi sono i loro genitori, cosa e come le hanno educate, dove sono cresciute”. Nessuno si è posto le stesse domande al maschile.
I media che hanno riportato questa notizia sono pienamente colpevoli dell’accaduto, perché è un cerchio che non si chiude mai.

Il suo sguardo nel film non è mai giudicante. I giovani attori con cui ha lavorato hanno dato il loro apporto in questo senso?
Il mio desiderio era quello di non avere un giudizio, riuscendo comunque a mostrare la complessità del problema. Conoscendo i ragazzi, parlando con loro, il mio punto di vista si è ammorbidito ancora di più. Li ho esortati a proporre di tutto, a leggere la storia a partire dai loro occhi. Solo così può nascere qualcosa di autentico.

C’è una parte di lei in Iman? Rivede sé stessa adolescente nel suo personaggio?
Nel suo rapporto con Hana, c’è molto del mio legame con un’amica d’infanzia, così come c’è una parte di me nella sua brama di essere desiderata. Credo che ogni giovane donna si senta soggetta a questo sentimento. Ci sono elementi intimi e deboli di me, ho cercato di essere onesta con me stessa. Volevo creare un personaggio complesso e sfaccettato, e Iman è così. Da un lato vorresti urlare per sgridarla, dall’altro senti la necessità di stringerla tra le tue braccia per proteggerla.

Il film ha una fine aperta. Spera di indurre lo spettatore a riflettere?
Non volevo dare risposte, piuttosto far fare domande. I film di questo tipo sono sempre sull’orlo di cadere un po’ nella farsa, però penso che in “Excursion” non ci sfociamo mai. Se dipingi un personaggio solo come il cattivo, è facile per lo spettatore empatizzare con gli altri e considerarlo l’unico colpevole. La colpa qui invece è di tutti. Tutti siamo coinvolti in questo sistema, tutti ne facciamo parte. Siamo abituati a cercare la colpa negli effetti immediati, ma in realtà risiede sempre nel grande schema.

“Excursion” è il candidato per la Bosnia al miglior film straniero agli Oscar 2024. Qual è ora la massima aspirazione che ha per questo film?
Sento che ora è al posto giusto. Mi piacerebbe cambiare il mondo, ma sarebbe un intento pretenzioso per un film. Piuttosto è come un sasso gettato in mare che continua a rimbalzare e a fare cerchi nell’acqua. D’altronde è questo il senso delle opere d’arte, che nel loro piccolo muovono la società. Riuscire in questa impresa è tutto ciò che potrei mai aspirare a fare.
Da vedere.

Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen


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