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Manuel (interpretato dall’espressivo Andrea Lattanzi), ha compiuto 18 anni, e deve lasciare la comunità educativa (chiamata “istituto”, anche se sappiamo che le strutture denominate “istituti” per minori sono stati chiusi da tempo) dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita.

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È stanco della vita comunitaria che oramai gli sta molto stretta e mal sopporta, ed è desideroso di assaporare la libertà, nel mondo che sta fuori.

Veronica, madre di Manuel (interpretata da Francesca Antonelli) è in carcere, e l’unico riferimento affettivo che ha fuori è il figlio. Le viene offerta la possibilità di ottenere gli arresti domiciliari, a patto che qualcuno garantisca e si prenda carico di lei: Manuel. Una situazione paradossale, perché sarebbe Manuel ad aver bisogno di un adulto di riferimento in questa fase della vita così critica e delicata, dove la libertà sconosciuta può portare a fare scelte molto compromettenti.

Manuel sente il pesante carico del passaggio dalla minore età in un contesto protetto ad un'età adulta nel mondo fuori pieno di tentazioni e di pericoli, che gli piomba addosso velocemente e che non sa se sarà in grado o meno di reggere perché privato di aiuti, di punti fermi, e confrontato a tante incognite.

Manuel - che ci ricorda il "Giovane Holden" del romanzo di J.D. Salinger, che si ribella e affronta tutto senza però riuscire ad adattarsi - viene così catapultato nella periferia balneare nei dintorni di Civitavecchia, 70 km a nord di Roma. Un luogo fatiscente, costituito da vecchi casolari popolari e da personaggi segnati dal proprio contesto di vista, che ci ricordano il pluripremiato “Dogman” di Matteo Garrone.

“Sei arrivato te, è arrivato il sole, sì, è arrivato proprio il sole”, dice Veronica a Manuel, che per accudirla rinuncerà ad innamorarsi di un’aspirante attrice o a partire con un amico d’infanzia, confrontandosi pian piano con l’angoscia e l’egoismo di lei.

Un racconto di formazione empatico e ricco di temi e di emozioni, dal passaggio dall’adolescenza all’età adulta al rapporto conflittuale tra le generazioni, dai contesti protetti (comunità educativa e carcere) a quelli senza rete della vita fuori, dalle contraddizioni della vita dietro le mura di casa e della vita di strada con le sue attrazioni e le sue minacce al desiderio di vivere la vita senza freni e senza limiti, alla linea di confine tra libertà e responsabilità.

Dopo esperienze di documentari, musica, fotografia e videoclip, Dario Albertini esordisce con questa pellicola nella fiction. Le sue esperienze pregresse consentono di arricchire il suo lavoro di regista, con un’attenzione ai personaggi, in primis al protagonista “pedinato” con la macchina da presa sul quale si concentrano i lunghi piani sequenza, sostitutivi del classico campo-controcampo.

Oltre a questo, si segnalano l’accompagnamento musicale centrato, la fotografia con inquadrature d’effetto, la scenografia che punta su luoghi trasformati in quadri viventi, la sceneggiatura che trasforma ogni incontro e dialogo in una piccola rivelazione (ad esempio all’inizio con l'educatore e poi con l'assistente sociale, nei saluti alla comunità o nell'incontro con la madre). “Ho lasciato molto spazio all’improvvisazione, cercando il momento unico”, afferma il regista in un’intervista.

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E sembra esserci riuscito perché l’anno e mezzo di riprese della pellicola è quasi un processo esperienziale per il protagonista che ci fa sentire parole, ascoltare pensieri e provare emozioni. Ma la bellezza e la forza di questo film stanno anche nel vuoto delle scene più eteree, in cui il regista e il protagonista riescono a svelare e a farci respirare la verità e la complessità del personaggio di Manuel.

Dario Albertini ha ricevuto una nomination come miglior regista esordiente ai “Nastri d’Argento 2018”. La pellicola è stata presentata alla 74° “Mostra internazionale d'arte cinematografica” di Venezia nella sezione Cinema nel giardino, ha vinto diversi premi tra cui il “Ciak Alice Giovani 2019”, premio che nasce dalla collaborazione tra Alice nella Città, Sezione autonoma e parallela della “Festa del Cinema di Roma” e la Rivista di cinema “CIAK” e come miglior film e miglior attore al “Bimbi Belli 2018”, il festival diretto da Nanni Moretti.

L’idea di quest’opera nasce da “La Repubblica dei ragazzi”, un documentario girato nel 2013, in cui il regista racconta la vita di ragazzi privi di sostegno familiare accolti in una comunità educativa gestita da religiosi.

Le loro storie riprese dal documentario però si fermavano prima della fine del percorso comunitario, da cui l’idea di riprendere questo argomento concentrandosi sul pezzo mancante: l’uscita. Il regista afferma in un’intervista: “…La cosa chiara era il senso di “crisi” che questo ragazzo prova per la prima volta, e forse è quello l’antagonista vero e proprio: quel bivio che ad un certo punto si trova da una parte la libertà e anche l’idea di un altrove proposto dal suo amico che torna e dall’altra la voglia di conoscere la mamma perché in realtà per lui la mamma è un’estranea.

Gli incontri che fa sono tutti uno shock, tutto accade e poi non torna. A noi sembrava di raccontare in forma ridotta quello che c’è fuori. I vari incontri sono un po’ il riassunto di quello che si è perso negli anni stando all’interno di questa struttura, quindi vivendo dentro questa bolla…”.

L’attore protagonista Andrea, giovane promessa del cinema italiano, coi tratti di un volto affilato e uno sguardo intenso, capace di esprimere l’orgoglio e la paura, ribelle ma gentile, timido ma autentico, riesce in pochi gesti e parole a rivelare una verità che emoziona, una vita interiore che ribolle in superficie, una fragilità ruvida ed autentica, in grado di trasformarsi di fronte alle difficoltà in forza umana ed appassionante.

Racconta della sua esperienza con il regista: “È stata un’emozione grandissima … Dario mi ha accompagnato nella struttura a mò di documentario… avevo la telecamera costantemente dietro, in ogni scena. C’era un po’ d’ansia, non da prestazione ma di responsabilità perché hai un peso che devi portare un film avanti …Si lavorava insieme, si era creata una squadra, sapevamo l’obiettivo che volevamo raggiungere…è stata una rivincita contro un po’ la mia famiglia. L’unica donna che mi ha creduto è stata sempre solo mia madre… tutta l’altra parte della mia famiglia non mi ha mai creduto”.

Sono sicuro invece che il pubblico crederà in lui, e ne sentirà ancora parlare.

Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen


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