Nelly (interpretata da Joséphine Sanz), bambina di 8 anni, a seguito del decesso della nonna materna ricoverata in casa di riposo, si ritrova nella casa di campagna di quest’ultima con la madre Marion (da adulta Nina Meurisse e da bambina Gabrielle Sanz, sorella gemella di Joséphine Sanz) e il padre (Stéphane Varupenne), per sistemarla prima di una possibile vendita.
Una casa e un luogo, un’atmosfera sospesa nel tempo, eredità e ricordi che mettono a confronto due generazioni, con inaspettati incontri e sorprendenti risposte.
Da poco giunti in questa casa di campagna, la madre deve rientrare in città e improvvisamente scompare, parallelamente appare nel bosco adiacente alla casa una bambina che si chiama Marion e che ha le sembianze di Nelly. Ma lasciamo alla visione della pellicola, la rivelazione di cosa si cela dietro al legame empatico che si crea subito tra le due bambine.
È indubbio che i luoghi e gli spazi del film sono doppi, non vengono mai sovrapposti l’uno all’altro bensì sono affiancati, per quanto risultino identici, vengono posti in modo consequenziale l’uno dopo l’altro; un gioco tra realtà e fantasia di Nelly, un gioco però in cui la seconda non si sostituisce alla prima, ma piuttosto la sostiene.
Una nota di encomio va sicuramente alla fotografia di Claire Marhon, per le immagini minimaliste che puntano all’essenziale, per consentire di andare oltre all’immagine e concentrarsi su quello che le immagini nascondono. Una casa con pochi arredi, un armadio a muro intriso di scatole di ricordi, muri in parte imbiancati e in parte tappezzati, rituali ripetuti, malattie tramandate di madre in figlia, bambine che giocano interpretando ruoli, uno maschile e l’altro femminile, perfettamente sincronizzate fra loro, ombre che intimoriscono e ombre che abbracciano, sono alcuni tasselli che compongono un ricco puzzle che pian piano si svela e rivela.
Céline Sciamma ha realizzato opere conosciute anche dal pubblico italiano. Si ricordano i suoi precedenti film su tematiche legate all’infanzia e all’adolescenza: “Tomboy” del 2011, che affronta il tema dell’identità di genere, “Diamante nero” (“Bande de filles”) del 2014, sull’attualissimo tema della costruzione della propria identità nel contesto di una banda giovanile al femminile, e “Ritratto della giovane in fiamme” (“Portrait de la jeune fille en feu”) del 2019, ambientato nella Francia del XVIII secolo.
“Petite Maman” è stata presentata in Concorso alla 71° Berlinale e ha vinto come Miglior Film la sezione “Alice nella Città” dell’ultima Festa Internazionale del Cinema di Roma.
È un piccolo gioiello sull’amore, che affronta anche altri grandi temi come la memoria, l’identità, l’amicizia e la famiglia, nonché un tema tabù per la nostra società occidentale, così vivo per molti di noi durante questo periodo pandemico: il saluto e la perdita di una persona cara. Il tema del lutto e della sua rielaborazione sono presenti nella pellicola di Céline Sciamma che, con molta delicatezza, amore e intimità, ci prende per mano e ci accompagna in un racconto in cui molti potranno trovare un pezzetto di sé e della propria storia.
Con quest’opera Céline Sciamma ci ricorda che nessuno scompare davvero, come scrive Père Antoine Dalmace Sertillanges: “Con la morte la famiglia non viene distrutta, bensì si trasforma, una parte di essa se ne va nell'invisibile. Crediamo che la morte sia un'assenza, quando invece è una presenza segreta.
Si crede che crei una distanza infinita, poiché rimuove qualunque distanza, riportando alla mente ciò che si trovava nel corpo. Non fa che rinnovare i legami, infrangere le barriere, sbriciolare i muri, dipanare la nebbia, se noi lo desideriamo. Le persone care che lasciano la nostra casa, creano legami celestiali con coloro che restano.”
Ma Céline Sciamma parla anche e molto di emozioni. Le emozioni come sapete sono dotate di una forza dirompente. E la regista lo fa con intelligenza. E sull’intelligenza emotiva tanti hanno disquisito, da Aristotele fino a Daniel Goleman.
Quest’ultimo la definisce come la “capacità di motivare sé stessi, persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo, evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”.
Pertanto, si riferisce alla capacità di riconoscere i propri sentimenti e quelli degli altri, di motivare sé stessi e di gestire positivamente le proprie emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali.
La pellicola inizia con un abbraccio mancato e finisce per abbracciarci tutti come le due piccole protagoniste nella locandina del film. Una riflessione delicata sull’amore più profondo di tutti: quello di una madre e una figlia.
Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen