Il piano sequenza iniziale in oggettiva, ci catapulta in un mondo lontano nel tempo e nello spazio: all’inizio del ‘900, sulle spiagge di una piccola isola friulana. Un corteo di donne accompagna in riva al mare Agata (Celeste Cescutti), in procinto di partorire e coperta da un velo bianco, per un rituale propiziatorio: un taglio sulla mano per allontanare le disgrazie.
Stacco e cambio di scena, nell’abitazione di Agata è il momento del parto, ma qualcosa non va: la neonata non respira e a nulla servono i tentativi dell’ostetrica del villaggio di rianimarla. Al risveglio di Agata, il marito le dice che l’ha già sotterrata.
Un altro cambio di scena, un altro corteo a cui si unisce Agata dolorante nel fisico e nell’anima, consegna al mare la bara del compaesano Antonio. Agata supplica il prete del villaggio di battezzare la neonata, ma lui le risponde di non potere né battezzarla, né darle un nome, perché nata senza vita. La perpetua si avvicina ad Agata e le dice furtivamente: “Va a Ignac”. Si tratta di un luogo dove c’è un santuario sui monti della Val Dolais (Carnia), in cui si riesce a far esalare un ultimo respiro ai bambini nati senza vita, per poterli battezzare e dargli un nome.
Indignata dall’indifferenza di tutti e affranta dal dolore, Agata decide di compiere un gesto di ribellione e fugge dal suo villaggio. Dopo aver trovato nel bosco il corpo della neonata sepolto in una piccola cassetta di legno, parte con lei per un lungo viaggio verso il santuario, senza conoscere tragitto e meta, e senza scarpe e abiti idonei ad affrontare il freddo e la neve.
All’inizio del cammino Agata incontra Lince (Ondina Quadri), arguto e diffidente vagabondo dalla personalità ambigua e sfuggente, con cui intesse un legame dagli effetti miracolosi per entrambi. Lince è disposto ad accompagnare Agata fino alla meta, in cambio della metà del contenuto della cassetta di legno, senza sapere cosa contiene. Lungo un cammino impervio, faticoso e sempre in salita, in senso fisico e metaforico, segnato dal continuo dialogo con la natura e i suoi quattro elementi primari, Agata e Lince incontrano briganti, minatori e gli abitanti del villaggio di origine del vagabondo. Ognuno di loro offre un piccolo aiuto ad Agata, a volte per nulla, a volte in cambio di qualcos’altro (cure mediche in cambio dei suoi lunghi capelli di un colore indefinito, tra il rosso e il castano).
L’opera prima di Laura Samani, presentata alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2021, è un dramma tra il fantastico e il reale sul lutto di una madre, immerso in un’atmosfera ancestrale. In base all’arcaica tradizione cristiana, l’anima di chi è morto senza aver ricevuto il battesimo, finisce nel limbo.
La regista sembra essere stata in grado di cogliere l’essenza di questo limbo, ed essere riuscita a trasfonderla in immagini poetiche, che contrastano col fatto tragico da cui prende vita il viaggio dalla meta misteriosa e religiosa, fra il cristiano e il pagano.
“Piccolo corpo” è un’opera originale ed evocativa, in grado di recuperare le tradizioni popolari e di trasformarle in pretesti per affrontare temi senza tempo. È un puzzle di emozioni di forte impatto visivo e acustico, in cui la sofferenza, la speranza, l’illusione, il cadere e rialzarsi della protagonista, si susseguono in continuazione.
È un percorso dell’elaborazione del lutto ma anche di ostinata autodeterminazione della protagonista, trasfigurato nel suo pellegrinaggio, che le consente di uscire dagli schemi chiusi della vita isolana, per aprirsi al mondo, arricchita della sperimentazione di sentimenti di bontà e altruismo, ma anche di meschinità e opportunismo, pur restando ancorata nel dolore dell’impossibilità di vedere vivere e crescere la propria figlia. Un viaggio per dare un’identità alla figlia, che si trasforma in una potente metafora del percorso alla scoperta di sé, in questo possiamo scorgere il vero miracolo.
E a contribuire a questo miracolo, ci sono i paesaggi lagunari, le montagne dell’alto Friuli e un cast misto di attori professionisti - un encomio per Celeste Cescutti e Ondina Quadri - e non professionisti che recitano in friulano e nei diversi dialetti locali. Così come degno di nota è il suggestivo brano dall’omonimo titolo della pellicola, composto dall’autrice delle musiche originali Fredrika Stahl, con testi della stessa regista, eseguito dalla protagonista e dal coro popolare: commistione tra sonorità electro e voci ancestrali.
La regista racconta che questa pellicola nasce nel 2016 “quando ho scoperto che a Trava, nel mio Friuli Venezia-Giulia, esiste un santuario dove, fino alla fine del 19° secolo, avvenivano miracoli particolari: si diceva che lì si potessero riportare in vita i bambini nati morti, per il tempo di un respiro. Il miracolo del ritorno alla vita era necessario per battezzare i bambini. I santuari di questo tipo portano il nome di “à répit”, del respiro o della tregua, erano presenti in tutto l’arco alpino – solo la Francia ne contava quasi duecento – ed è impressionante come questi fatti siano pressoché sconosciuti, nonostante la dimensione del fenomeno. La storia di questi miracoli si è impigliata in qualche anfratto dentro di me ed è rimasta lì a chiedere attenzione”.
Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen