Educare significa anche prevenire e come ci ha insegnato ormai più di mezzo secolo fa il padre della teoria dell’attaccamento, affinché una società sia sana occorre prendersi cura dei genitori, sostenerli, comprenderli, aiutarli ad insegnare ai propri figli che il malessere coperto, nascosto dentro ad un cassetto prima o poi esplode e in questo boato rischia di far crollare tutti, compresa quella società, che dovrebbe aiutare a sostenere e a prevenire il malessere.
Si parla tanto dopo, si fanno illazioni, si stilano profili di personalità per mettere in guardia e allontanare diligentemente il pericolo, si trafilano commenti accusatori, rumors mediatici che tentano di coprire il dolore, nel cercare una giustizia, che non c’è, che non può esserci se non nella comprensione che l’animo umano, soprattutto quello dei giovani, ha bisogno, oggi più che mai, di essere sostenuto e non giudicato, perché in quel giudizio altro non c’è che lo spostamento accusatorio del nostro fallimento come esseri umani desiderosi di costruire una società sana.
È il momento della riflessione, del silenzio, di chiudere le porte al giudizio e di cercare di trovare delle leve mentali, individuali, singole e collettive, per non permettere più ai bambini, ai giovani, agli adulti di nascondere il malessere, di coprirlo e chiuderlo in un cassetto che congela apparentemente le emozioni ma in realtà le scalda e le infuoca, in un miscuglio caotico di pensieri che se non vengono narrati, dichiarati ed espressi all’altro che ascolta e non giudica, possono far male a se stessi e agli altri.
Non si parla dopo, quando ormai è troppo tardi, ma dobbiamo imparare ad educare sin da piccoli a mettere in parole, le difficoltà che si provano, senza vergognarsi, senza sentirsi in colpa e questo può accadere solo se le parole vengono abbracciate da un ascolto attivo, empatico che non giudica ma cerca di comprendere quel vissuto emotivo che fa male e, che se si incapsula in un disagio mentale apparentemente privo di senso, può permettere di sollecitare la richiesta di un aiuto di altro tipo, uno spazio di comprensione che il giovane può trovare nella stanza d’analisi.
Osservazione, ascolto e azione preventiva quando i segnali del disagio sono in fase embrionale e non più quando ormai è troppo tardi e per farlo dobbiamo unirci tutti, grandi, piccini, giovani e anziani in un percorso di cura verso se stessi e gli altri.
Insegniamo ai nostri figli a comunicarci quello che stanno vivendo, da piccoli raccontiamo storie, cerchiamo di fargli capire che la mucca Violetta è triste perché ha perso il suo amico ma in quella giornata triste ha trovato consolazione nell’abbraccio della mamma fino a tornare a sorridere e a trovare un nuovo amico, che dopo la pioggia può arrivare uno spettacolare arcobaleno, che nel tirar fuori le emozioni e nel metterle in parole, ci si sente meglio, si può essere capiti ed aiutati.
In famiglia, nel gruppo, a scuola, con i professori, i maestri, i genitori, parliamo, confrontiamoci per cercare di dare un senso costruttivo al dolore e non di coprirlo più con rumors che hanno solo la rabbia come filo conduttore. Fermiamoci e cerchiamo di comprendere il nostro fallimento, per agire con determinazione prima e non più dopo.