Si parla spesso e volentieri delle cosiddette soft skills, ovvero di quelle abilità che, nel mondo lavorativo come anche nella vita privata, aiutano il singolo nell’affrontare al meglio i problemi.
Competenze empatiche, relazionali e sociali che sicuramente possono fare la differenza, a seconda del contesto di riferimento.
Tuttavia, la capacità di sapere come e quando utilizzarle non è scontata.
Una citazione che ho sempre apprezzato e considerato come fonte d’ispirazione recita:
‘’Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso’’.
In queste poche ma semplici parole, si potrebbe racchiudere quello che Piero Bertolini ha sempre sostenuto nelle sue pratiche pedagogiche: l’educazione al bello.
In una sua importante opera che s’intitola ʺRagazzi difficiliʺ, Piero Bertolini vuole promuovere una cultura altra che abolisca i paradigmi di differenziazione e di etichettamento, e che invece si concentri sul singolo, considerandolo come soggetto attivo, capace di pensiero critico e in grado di vedersi e progettarsi nel futuro.
Ciò che spesso manca è proprio l’intenzionalità delle proprie azioni, la mancanza di quella consapevolezza che ci rende protagonisti della nostra vita.
Nei cosiddetti ʺragazzi difficiliʺ, come li definisce Piero Bertolini, spesso queste competenze di vita tendono a mancare.
È come se questi ragazzi non riuscissero a intravedere quella ʺluce in fondo al tunnelʺ, che permetta loro di direzionarsi verso una realtà altra, fatta di bellezza, ma anche di responsabilità.
Ecco che la figura dell’educatore subentra con lo scopo di mostrare, attraverso un dialogo maieutico e una visione progettuale, quella che è la via da percorrere.
Dinnanzi a questo incontro l’educatore deve creare un ʺcerchioʺ relazionale, capace di racchiudere e custodire al suo interno tutte quelle emozioni, quelli stati d’animo, quelle paure, incertezze ma anche speranze, che il dialogo porta con sé.
Ridare fiducia nel mondo, nell’umanità, nel futuro, non è affatto semplice, ma se all’educando si trasmette amore, gioia e speranza, i risultati non potranno mancare.
Nell’opera di Piero Bertolini, si parla infatti di educazione al bello, ma cosa significa esattamente?
Cominciare magari a far conoscere la bellezza partendo dal creato, dalla natura: fare gite in montagna, oppure portare i ragazzi a delle mostre di opere d’arte, facendosi così ispirare dal bello artistico.
Educare al bello non è soltanto far conoscere ʺcose belleʺ esteticamente, educare al bello significa mettere il soggetto nella condizione di comprendere come al mondo esistano diverse prospettive e soprattutto diverse modalità di interpretazione della realtà: una realtà che non sarà mai da considerarsi bella o meno bella in modo univoco, ma bella nella maggior parte dei casi, se la si osserva nella giusta prospettiva.
In questo modo il ragazzo avrà anche l’occasione per ridefinirsi all’interno del mondo, sia come persona in relazione a sé stesso, sia come persona in relazione agli altri.
Pertanto, sul lato pratico cosa succede?
Pensare che il mondo non sempre è bello ma lo può diventare, implica un senso di operatività che porta il singolo a pensarsi come attore di cambiamento e di trasformazione del mondo che lo circonda.
Sentirsi parte attiva di un percorso, implica sviluppare capacità progettuali ed anche un certo senso di responsabilità verso la propria vita e verso quella degli altri.
Bisogna restituire una prospettiva di senso all’educando così da permettergli di modellarsi come persona e soprattutto come essere umano.