Dedicato a S.
La piccolina è morta disidratata a poco più di un anno. Era nata con una particolare malattia per cui il sudore, in lei, non si fermava. Una conseguenza estrema della stessa era una rara malformazione: S., pur essendo una bambina, aveva un organo genitale maschile esterno anche se incompleto. C’era il pene, non i testicoli.
La cosa ha scosso parecchio il piccolo paese dove si trovava a vivere e c’è il sospetto che questo abbia distratto dalla malattia tutta intera, che oltretutto richiedeva farmaci continui e costosi. Fatto sta che la bimba è morta, appunto, per disidratazione. Errori medici sono stati riscontrati da un tribunale e i danni sono stati, si fa per dire, risarciti.
Certo non sta bene
far sapere in giro
che è nata con un pene.
È stato un brutto tiro
d’origine genetica
perché, si sa, la donna
è sempre un po’ bisbetica
ma così è una condanna.
Femmina all’interno
con questa carne d’avanzo,
sia Paradiso o Inferno
è cosa da romanzo.
Se ne parla in paese:
“Lo sai, ha il doppio sesso”.
Le loro menti accese
si godono l’eccesso.
Non avrà un lieto fine
il romanzo d’appendice.
La chirurgia è gentile
ma non quanto si dice.
E poi la malattia
è cosa assai più seria
e non si caccia via
amputando la materia.
Perché la bimba suda
senza limite o ragione
e in questo si prosciuga.
La mamma ha il magone.
La tiene stretta stretta
aspettando i dottori.
L’ambulanza non ha fretta.
Il medico è fuori.
C’è solo da provare
a idratarla un pochino.
La vena non si trova.
Fa un altro buchino
la povera infermiera
finché non si rassegna.
Finisce ormai la sera.
La notte ridisegna
la bimba che ha paura
la mamma che la stringe
la bimba che scolora
la mamma che ora piange.
È un tremito, una pena
una cosa convulsa.
La fine della scena
è una morte insulsa.
Le filastrocche giudiziarie
I tribunali per i minorenni prendono ogni giorno decisioni difficili. Scelte delicate, suscettibili certo di errore ma orientate ogni volta sulla valutazione dei rischi e dei danni che un minore patisce, molto spesso per mano degli adulti a lui più vicini vale a dire i suoi genitori e i familiari più stretti.
Negli ultimi anni una retorica mielosa e in bianco e nero ha raccontato storie dove i buoni erano ben distinti dai cattivi e dove la conclusione era invariabilmente una sola: i bambini e i ragazzi devono crescere con i loro genitori. Con loro, chiunque essi siano e comunque si comportino.
Ogni altro intervento, anche quando è temporaneo e di stimolo al cambiamento per giungere a relazioni familiari più serene, viene presentato come crudeltà, come ingiustizia. Avrebbe, ciascun genitore, il diritto di fare dei propri figli tutto ciò che vuole - e di evitare il dolore, per sé e per il bambino. Piuttosto la perversione, il maltrattamento, l'incertezza endemica. Tutto sembra meglio della sofferenza che sta dentro alla crisi e alla necessità di cambiare.
Il cinismo infantile di Cukerì che racconta scelte giudiziarie estreme, eppure ordinarie nelle aula dei tribunali per i minorenni, è uno sberleffo a questa logica e un modo per affermare una volta di più che i bambini e i ragazzi sono persone. Non proprietà, non appendici degli adulti ma persone, soggetti di diritto, nei cui panni occorre provare a mettersi e che è opportuno disporsi ad ascoltare in ogni singola e distinta decisione che riguardi da vicino la loro vita.
Le precedenti filastrocche