Può essere una cosa tra le più difficili al mondo, decidere con chi deve crescere un bambino. Ma può diventare facilissimo se si applica l’unico criterio del diritto di sangue. Se però abbiamo lo sfizio di chiederci che cosa si meglio per il bambino, la risposta può non essere scontata.
Non ho la soluzione
non mastico la legge
ma ho come l’impressione
che a volte non protegge
sul serio una bambina
la strappa alla sua storia
e a chi le è più vicino.
Ci sento tanta boria.
Pensieri irrigiditi
su un piano troppo astratto.
Affetti inceneriti
trasfusi in un contratto
che nel sangue conosce
l’unica ragione,
su questo costruisce
la sua religione.
Dove sta la bambina
che cresceva serena?
Sono pessima indovina
ma non trovo sulla scena
qualcosa che assomigli
quantomeno al rispetto
per il futuro dei figli.
E io non ci scommetto
che la domanda di fondo
su cosa vive un bambino
trovi nel vostro mondo
di più di un angolino.
L’interesse preminente
– altro che Convenzione –
per voi è tenere a mente
l’unica soluzione:
un bambino è una cosa
appartiene ai genitori
e noi poveri illusi
seguendo altri valori.
Siete rassicurati
dalla biologia?
Così pacificati
dalla genealogia?
È voi che proteggete
i vostri passi incerti.
I figli che giudicate
non li avete ancora scoperti.
Le filastrocche giudiziarie
I tribunali per i minorenni prendono ogni giorno decisioni difficili. Scelte delicate, suscettibili certo di errore ma orientate ogni volta sulla valutazione dei rischi e dei danni che un minore patisce, molto spesso per mano degli adulti a lui più vicini vale a dire i suoi genitori e i familiari più stretti.
Negli ultimi anni una retorica mielosa e in bianco e nero ha raccontato storie dove i buoni erano ben distinti dai cattivi e dove la conclusione era invariabilmente una sola: i bambini e i ragazzi devono crescere con i loro genitori. Con loro, chiunque essi siano e comunque si comportino.
Ogni altro intervento, anche quando è temporaneo e di stimolo al cambiamento per giungere a relazioni familiari più serene, viene presentato come crudeltà, come ingiustizia. Avrebbe, ciascun genitore, il diritto di fare dei propri figli tutto ciò che vuole - e di evitare il dolore, per sé e per il bambino. Piuttosto la perversione, il maltrattamento, l'incertezza endemica. Tutto sembra meglio della sofferenza che sta dentro alla crisi e alla necessità di cambiare.
Il cinismo infantile dell'autrice che racconta scelte giudiziarie estreme, eppure ordinarie nelle aula dei tribunali per i minorenni, è uno sberleffo a questa logica e un modo per affermare una volta di più che i bambini e i ragazzi sono persone. Non proprietà, non appendici degli adulti ma persone, soggetti di diritto, nei cui panni occorre provare a mettersi e che è opportuno disporsi ad ascoltare in ogni singola e distinta decisione che riguardi da vicino la loro vita.
Le precedenti filastrocche