Queste “filastrocche per una scelta difficile” sono dedicate a Elizabeta, una ragazza sinti di 16 anni che per sfuggire a un futuro già segnato ha chiesto di entrare in una comunità educativa. Più di tutto, ciò che l’ha condotta è stato il desiderio di studiare, che per lei non è promessa di denaro o prestigio ma conoscenza e scoperta.
Mi parla di matrimoni combinati tra ragazzini, di alcol in eccesso, di violenza familiare, e poi: “Io sono cresciuta in un certo modo e per me queste cose sono normali, però allo stesso tempo vado a scuola e scopro che non sono normali per niente. Io amo i miei genitori, li amo moltissimo, ma non voglio vivere così”.
A lei, e a noi, auguri di un tempo migliore.
Cari genitori
voglio parlarvi.
Sì, vivo fuori
ma continuo ad amarvi.
Ve l’avevo detto
che studiare è il mio sogno.
Non è per dispetto
è proprio un bisogno.
Dite: “Che se ne fa
una ragazza di studiare?
Tanto si sa già
che si dovrà sposare”.
E Valentina
che non era innamorata
una brutta mattina
l’avete forzata.
Non mi avete persa
e un po’ mi dispiace
ma sono diversa.
E sono tenace.
Non vi siete fidati.
Lo sapete chi sono.
Non ho fidanzati
non mi drogo e non fumo.
Non è una passeggiata
crescere sinti.
Per voi è cosa scontata
ne siete convinti.
Questa cultura
per me è una prigione.
Nella paura
la soluzione
è stato parlare
chiedere aiuto
e poi scappare
da questo imbuto.
Vi amo ancora
davvero tanto
mi sento sola
e non me ne vanto
ma ho una strada
che mi appartiene.
Ovunque vada
spezzerà le catene.
Le filastrocche giudiziarie
I tribunali per i minorenni prendono ogni giorno decisioni difficili. Scelte delicate, suscettibili certo di errore ma orientate ogni volta sulla valutazione dei rischi e dei danni che un minore patisce, molto spesso per mano degli adulti a lui più vicini vale a dire i suoi genitori e i familiari più stretti.
Negli ultimi anni una retorica mielosa e in bianco e nero ha raccontato storie dove i buoni erano ben distinti dai cattivi e dove la conclusione era invariabilmente una sola: i bambini e i ragazzi devono crescere con i loro genitori. Con loro, chiunque essi siano e comunque si comportino.
Ogni altro intervento, anche quando è temporaneo e di stimolo al cambiamento per giungere a relazioni familiari più serene, viene presentato come crudeltà, come ingiustizia. Avrebbe, ciascun genitore, il diritto di fare dei propri figli tutto ciò che vuole - e di evitare il dolore, per sé e per il bambino. Piuttosto la perversione, il maltrattamento, l'incertezza endemica. Tutto sembra meglio della sofferenza che sta dentro alla crisi e alla necessità di cambiare.
Il cinismo infantile dell'autrice che racconta scelte giudiziarie estreme, eppure ordinarie nelle aula dei tribunali per i minorenni, è uno sberleffo a questa logica e un modo per affermare una volta di più che i bambini e i ragazzi sono persone. Non proprietà, non appendici degli adulti ma persone, soggetti di diritto, nei cui panni occorre provare a mettersi e che è opportuno disporsi ad ascoltare in ogni singola e distinta decisione che riguardi da vicino la loro vita.
Le precedenti filastrocche